lunedì 25 novembre 2013

Femminicidio

Il 17 maggio 2013 alla Casa Internazionale delle Donne si è tenuto un incontro sul FEMMINICIDIO per un confronto tra rappresentanti istituzionali, giuriste, psicoanalisti e operatori del sociale.
Oggi, 25 novembre 2013, Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, abbiamo deciso di pubblicare il primo dei tre Ebook che raccoglie gli interventi, con l'auspicio che chi opera per contrastare la violenza di genere riesca a fare rete ed agire in maniera congiunta sulle cause sociali e culturali del femminicidio. 
 
FEMMINICIDIO - Il femminile impossibile da sopportare - Volume 1
 
Per scaricare l'Ebook clicca qui

venerdì 22 novembre 2013

Psichiatria Democratica

Da  anni  il modello bio-medico risulta dominante e questo accade nonostante le scarsissime evidenze sia sul versante etiologico che psicofarmacologico. Questo modello si propone come pensiero unico e indiscutibile ed opera nei fatti come tabula rasa degli altri approcci; prevale così, anche al di là delle singole intenzioni, un approccio oggettivante e meccanicistico alla malattia mentale, rispetto al paradigma della complessità.
 
 

mercoledì 20 novembre 2013

Siamo tutti disinseriti (Pierre-Gilles Guèguen)

Nella fase classica del suo insegnamento, Lacan ha mostrato come il linguaggio produca sempre malintesi. Proprio per questo motivo è necessario continuare a parlare, dato che il senso fugge e non esiste comunicazione senza resto. [Vai all'articolo]
 
 

venerdì 15 novembre 2013

Il giro d'Italia degli "Altri scritti"

Gli Altri scritti raccolgono una serie di testi scritti di pugno da Lacan. Essi fanno seguito agli Scritti che furono pubblicati in Francia nel 1966 e decretarono la vera e propria entrata in scena di questo straordinario pensatore della Cosa psicoanalitica. I testi qui raccolti da Jacques-Alain Miller continuano l'irradiazione di questo insegnamento.
Negli Scritti l'accento era posto sul «come» funziona l'inconscio tramite il suo operatore, ossia il significante. Ed era sintetizzato nell'aforisma «l'inconscio è strutturato come un linguaggio». Negli Altri scritti l'accento si sposta sul nucleo che è il cuore pulsante dell'inconscio: il godimento. Si potrebbe sintetizzare questo nuovo punto di prospettiva in un aforisma mai pronunciato da Lacan: «l'inconscio è un apparato di godimento».
Godimento che, se è tale per l'inconscio, spesso non lo è per la persona che lo patisce nel sintomo. La quale tuttavia può ritrovarlo nelle diverse sfaccettature che fanno la gioia e la risorsa di quello che Lacan chiama il «parlessere».



                                                                                                                                                                     Antonio Di Ciaccia

Appuntamento a MILANO
 

mercoledì 13 novembre 2013

Il trattamento psicoeducativo dei detenuti


Il trattamento terapeutico o rieducativo (non sono la stessa cosa) dei detenuti che hanno commesso crimini violenti, evidenzia peculiari criticità e necessita di approfondite considerazioni. La questione non riguarda solo le tecniche e i metodi di trattamento dei soggetti, il tema comprende anche le scelte ideologiche e culturali della politica e include una forte assunzione di responsabilità rispetto alle indigenti condizioni di vita della popolazione carceraria e alle conseguenze del reintegro in società del recluso. Rispetto a questo tema, propongo un breve spunto di riflessione maturato nel corso di un più ampio studio svolto all'istituto FDE di Mantova sul trattamento dei soggetti in condizione detentiva.
Dal punto di vista del benessere psicologico dei detenuti è interessante leggere la ricerca scientifica condotta dalla psichiatra Seena Fazel e dall'epidemiologo John Danesh del 2002, pubblicata sulla rivista medica inglese "The Lancet",  che conferma come sia in crescente aumento il problema della salute mentale nelle istituzioni carcerarie e dove il carcere appare quindi con tutta evidenza un contenitore in grado di concentrare disturbi mentali.
Gli autori hanno preso in esame 62 diverse indagini psichiatriche, condotte sia prima che dopo il 1990 nelle prigioni di molti paesi occidentali, in tutto 22790 detenuti. Hanno rilevato che nel 65% dei casi gli uomini manifestano un disturbo di personalità e di questi il 47% ha diagnosi di disturbo antisociale, mentre le donne soffrono di disturbi di personalità per il 42% e hanno una diagnosi per disturbo antisociale con frequenza del 21%.
Per non allargare troppo la riflessione sul problema delle condizioni di salute della popolazione carceraria, prendiamo in considerazione selettivamente il programma che propone il trattamento dei soggetti cosiddetti antisociali. Verifichiamo sperimentalmente, leggendo i risultati delle esperienze più recenti di trattamento, anche a livello internazionale, le basse percentuali di successo misurate sulle statistiche che esprimono la percentuale di reiterazione del reato.
Questa categoria clinica viene classificata da G. O. Gabbard come la più approfonditamente studiata tra quelle che rientrano nel disturbo di personalità. Leggiamo che nella situazione terapeutica questi pazienti possono mentire, ingannare, rubare, minacciare e mettere in atto qualsiasi altro comportamento irresponsabile. Definiti come psicopatici, sociopatici, affetti da disturbi del carattere, termini che, in psichiatria, sono stati tradizionalmente associati all’incurabilità. Qualcuno si spinge ad affermare che tali pazienti dovrebbero essere considerati criminali e non essere inclusi nell’ambito della psichiatria.
Solo questo potrebbe bastare per farci desistere dall’idea di tentare ancora una volta una cura dove verosimilmente hanno fallito specialisti e terapeuti molto preparati e con grande esperienza. Per chi ha avuto modo di conoscere dal vivo questi individui non può non aver provato una netta sensazione di impotenza, paura e rabbia, forte repulsione e bisogno di tenere sempre molto alta la guardia. Tuttavia l’esperienza clinica suggerisce che l’etichetta di antisociale è applicata a un ampio spettro di pazienti, da quelli totalmente incurabili a quelli che sono curabili ma solo in determinate condizioni.
Questa situazione provoca in tutti gli operatori della salute mentale e tra i criminologi un forte senso di smarrimento che però, beninteso, non è sufficiente a produrre un arresto del desiderio di comprendere e non smarrisce la volontà di raggiungere un miglioramento delle condizioni di benessere nei penitenziari e tra la popolazione in reinserimento carcerario.
Forse dobbiamo interrogarci anche sul fatto che i criteri diagnostici per il disturbo antisociale riflettono aspetti del comportamento che come sottolinea anche Gabbard, restringono il punto focale del disturbo a una popolazione criminale connessa con ceti sociali inferiori, oppressi e economicamente svantaggiati. Fotografia della larga maggioranza di soggetti che ritroviamo all’interno delle carceri di tutto il mondo.
La possibilità di recupero appare concretamente molto difficile, soprattutto per il fatto che i soggetti da trattare rivelano strutture di personalità estremamente rigide e inattaccabili. 
In questo potrebbe entrare in gioco l’azione concreta della psicoanalisi che come diceva Jacques Lacan si inserisce nell'ordine duro della razionalizzazione estrema dei soggetti e porta al rifiuto di ogni discernimento conducendo in prigione un gran numero di soggetti psicotici. L’atto del soggetto criminale è infatti determinato da una forza di carattere costrittivo e di questa azione criminale il soggetto deve certamente rispondere. Se è giusto che ne risponda e di come deve rispondere non sta a noi psicologi deciderlo. Ma dove subiscono un arresto le discipline che provano a cambiare la performance del soggetto, la teoria psicoanalitica si fa avanti per cercare chi ha ceduto alla propria costrizione. La psicoanalisi può quindi certamente comprendere le dinamiche individuali, come espresso da Alain Miller è la sola che abbia un'esperienza dialettica del soggetto; lo psicoanalista sa essere oggetto, non volere niente a priori per il bene dell’altro, essere senza pregiudizi quanto al buon utilizzo che può essere fatto di lui. La psicoanalisi racconta dell’individuo nella sua unicità, e come dice Francesca Biagi-Chai ritrova la singolarità del soggetto, per quanto dissociata, oggettivata, violenta o crudele essa sia. E il registro delle controindicazioni si decide allora caso per caso.

 

 

sabato 9 novembre 2013

L'aggressività dei nostri figli

Ho deciso di pubblicare questo testo perché negli ultimi giorni mi è ripetutamente accaduto di incontrare persone che hanno espresso una viva preoccupazione riguardo il palese atteggiamento aggressivo dei figli nei loro confronti. Oltre a fornire qualche piccolo consiglio, mi sono espresso indicando la consultazione di uno psicologo. L'aiuto del professionista è in effetti certamente importante per definire con precisione la struttura del problema, al centro del quale si colloca il discorso del rapporto tra genitori e figli. E' necessario soprattutto che lo psicologo riesca a quantificare e a dare un significato alla carica aggressiva che tende a emergere e che il nucleo familiare può essere in grado di tollerare e gestire.
Definire cosa sia e che significato abbia l'aggressività è un compito molto complesso e che forse a priori può apparire insoddisfacente. Per la psicologia si tratta di una "tendenza che può essere presente in ogni comportamento e in ogni fantasia", che riguarda tutti i soggetti e che destina l'individuo a due condizioni esistenziali opposte: la distruzione di se stessi (o degli altri) e l'autoaffermazione.
Il comportamento aggressivo caratterizza molto spesso le interazioni all'interno del nucleo familiare e le persone si sono abituate a percepirne la cruda esposizione attraverso i media, la cui fruizione si colloca certamente in frequenza crescente. Il fenomeno dell'aggressività è sensibilmente mutato nel tempo e la percezione degli individui rispetto al fenomeno, come la loro soglia di tollerabilità, ha subito metamorfosi culturali sulle quali è improbabile trovare livelli di accettabilità condivisi. Anche l'etimologia del termine, dal latino aggredior che significa "cammino in avanti", ha un'importante connotazione in psicologia. Indicherei appunto come importante parametro di valutazione la soglia di tolleranza personale di ciascuno rispetto al problema. Alla quale seguono i temi della giustificazione sociale, della punizione e tutta la tematica psicopedagogica relativa all'educazione e rieducazione dei soggetti a partire dalla nascita...il discorso si allargherebbe troppo.
Tutti noi facciamo uso in modo più o meno esplicito del potenziale aggressivo di cui disponiamo, che con il tempo impariamo a gestire e qualche volta a mettere da parte, per sostituirlo con comportamenti più razionali. L'aggressività può essere modulata e si può esprimere attraverso possibilità molto alte di differenziazione. Risultando quindi largamente accettata, in molte delle sue declinazioni (anche estreme), all'interno dei differenti contesti culturali.
Perché quindi chi esercita la propria funzione di genitore sembra a volte smarrirsi di fronte alla scena di un figlio che esprime qualcosa attraverso un attacco più o meno aggressivo?
Freud e Piaget sostenevano che qualsiasi comportamento semplice non potesse essere compreso se analizzato come evento isolato avulso dalla complessità. La componente parziale, il frammento, a discapito dell'insieme, manca il significato e fa perdere il senso complessivo della struttura. Quindi il sorriso e il pianto di un bambino, così come l'atto aggressivo, possono essere capiti solo affrontando il complesso insieme organizzato di comportamenti che formano le relazioni tra genitori e figli.
A questo proposito è quindi importante che i genitori leggano e rispondano al comportamento dei propri figli considerando il comportamento degli stessi una delle infinite modalità espressive di un messaggio, una sorta di linguaggio non verbale. Riconoscere quell'atteggiamento aggressivo come parte culturale significante di un messaggio che inquieta e proprio per questo deve essere preso e affrontato. Lo stupore che genera ansia e smarrimento è la reazione di chi si vede fuori dal gioco e dalle regole. Essere genitore è buttarsi nella mischia e sporcarsi le mani. 
Curare, con le difficoltà che ogni genitore conosce benissimo, la qualità della relazione. Fare i genitori è un lavoro a tempo pieno che non finisce mai, un impegno personale lungo, costoso, pesante e molto difficile, per definizione e struttura imperfetto. Affrontare con coraggio il compito e ben vengano i consigli e gli interventi che i professionisti offrono per affrontare le situazioni di difficoltà e le impasse delle famiglie. E' una società complessa che ci richiede, oltre al buon senso, anche la profondità di una certa conoscenza personale.