Il trattamento terapeutico o rieducativo (non sono la stessa cosa) dei detenuti che hanno commesso crimini violenti, evidenzia peculiari criticità e necessita di approfondite considerazioni. La questione non riguarda solo le tecniche e i metodi di
trattamento dei soggetti, il tema comprende anche le scelte ideologiche e culturali della politica e include una forte assunzione di responsabilità
rispetto alle indigenti condizioni di vita della popolazione carceraria e alle
conseguenze del reintegro in società del recluso. Rispetto a questo tema, propongo un breve spunto di riflessione maturato nel corso di un più ampio studio svolto all'istituto FDE di Mantova
sul trattamento dei soggetti in condizione detentiva.
Dal punto di vista del benessere psicologico dei detenuti è interessante leggere la ricerca scientifica condotta dalla psichiatra Seena Fazel e dall'epidemiologo John Danesh del 2002, pubblicata sulla rivista medica inglese "The Lancet", che conferma come sia in crescente aumento il problema della salute mentale nelle istituzioni carcerarie e dove il carcere appare quindi con tutta evidenza un contenitore in grado di concentrare disturbi mentali.
Gli autori hanno preso in
esame 62 diverse indagini psichiatriche, condotte sia prima che dopo
il 1990 nelle prigioni di molti paesi occidentali, in tutto 22790
detenuti. Hanno rilevato che nel 65% dei casi gli uomini manifestano
un disturbo di personalità e di questi il 47% ha diagnosi di
disturbo antisociale, mentre le donne soffrono di disturbi di
personalità per il 42% e hanno una diagnosi per disturbo antisociale
con frequenza del 21%.
Per non allargare troppo la riflessione sul problema delle condizioni di salute della popolazione
carceraria, prendiamo in considerazione selettivamente il programma che propone il trattamento
dei soggetti cosiddetti antisociali. Verifichiamo sperimentalmente, leggendo i risultati delle esperienze più recenti di trattamento, anche a livello internazionale, le basse percentuali di successo misurate sulle statistiche che esprimono la percentuale di reiterazione del reato.
Questa categoria clinica viene classificata da G. O. Gabbard come la
più approfonditamente studiata tra quelle che rientrano nel disturbo
di personalità. Leggiamo che nella
situazione terapeutica questi pazienti possono mentire, ingannare,
rubare, minacciare e mettere in atto qualsiasi altro comportamento
irresponsabile. Definiti come psicopatici, sociopatici,
affetti da disturbi del carattere, termini che, in psichiatria, sono
stati tradizionalmente associati all’incurabilità. Qualcuno si
spinge ad affermare che tali pazienti dovrebbero essere considerati
criminali e non essere inclusi nell’ambito della psichiatria.
Solo
questo potrebbe bastare per farci desistere dall’idea di tentare
ancora una volta una cura dove verosimilmente hanno fallito
specialisti e terapeuti molto preparati e con grande esperienza. Per
chi ha avuto modo di conoscere dal vivo questi individui non può non aver provato una netta sensazione di impotenza, paura e rabbia, forte repulsione e bisogno di
tenere sempre molto alta la guardia. Tuttavia l’esperienza clinica suggerisce che l’etichetta di
antisociale è applicata a un ampio spettro di pazienti, da quelli
totalmente incurabili a quelli che sono curabili ma solo in determinate
condizioni.
Questa situazione provoca in tutti gli operatori della salute mentale e tra i criminologi un forte senso di
smarrimento che però, beninteso, non è sufficiente a produrre un arresto del desiderio di comprendere e non smarrisce la volontà di raggiungere un miglioramento delle condizioni di benessere nei penitenziari e tra la popolazione in reinserimento carcerario.
Forse dobbiamo interrogarci anche sul fatto che i criteri diagnostici
per il disturbo antisociale riflettono aspetti del comportamento che come sottolinea anche Gabbard, restringono
il punto focale del disturbo a una popolazione criminale connessa con
ceti sociali inferiori, oppressi e economicamente svantaggiati. Fotografia della larga maggioranza di soggetti che ritroviamo all’interno
delle carceri di tutto il mondo.
La
possibilità di recupero appare concretamente molto difficile, soprattutto per il fatto che i
soggetti da trattare rivelano strutture di personalità estremamente
rigide e inattaccabili.
In questo potrebbe entrare in gioco l’azione
concreta della psicoanalisi che come diceva Jacques Lacan si inserisce nell'ordine duro della razionalizzazione estrema dei
soggetti e porta al rifiuto di ogni discernimento conducendo in prigione un gran numero di soggetti
psicotici. L’atto del soggetto criminale è infatti determinato da
una forza di carattere costrittivo e di questa azione criminale il
soggetto deve certamente rispondere. Se è giusto che ne risponda e
di come deve rispondere non sta a noi psicologi deciderlo. Ma dove subiscono un
arresto le discipline che provano a cambiare la performance del
soggetto, la teoria psicoanalitica si fa avanti per cercare chi ha
ceduto alla propria costrizione. La psicoanalisi può quindi
certamente comprendere le dinamiche individuali, come espresso da Alain Miller è la sola
che abbia un'esperienza dialettica del soggetto; lo
psicoanalista sa essere oggetto, non volere niente a priori per il
bene dell’altro, essere senza pregiudizi quanto al buon utilizzo
che può essere fatto di lui. La
psicoanalisi racconta dell’individuo nella sua unicità, e come
dice Francesca Biagi-Chai ritrova la singolarità del soggetto,
per quanto dissociata, oggettivata, violenta o crudele essa sia. E
il registro delle controindicazioni si decide allora caso per
caso.