mercoledì 13 novembre 2013

Il trattamento psicoeducativo dei detenuti


Il trattamento terapeutico o rieducativo (non sono la stessa cosa) dei detenuti che hanno commesso crimini violenti, evidenzia peculiari criticità e necessita di approfondite considerazioni. La questione non riguarda solo le tecniche e i metodi di trattamento dei soggetti, il tema comprende anche le scelte ideologiche e culturali della politica e include una forte assunzione di responsabilità rispetto alle indigenti condizioni di vita della popolazione carceraria e alle conseguenze del reintegro in società del recluso. Rispetto a questo tema, propongo un breve spunto di riflessione maturato nel corso di un più ampio studio svolto all'istituto FDE di Mantova sul trattamento dei soggetti in condizione detentiva.
Dal punto di vista del benessere psicologico dei detenuti è interessante leggere la ricerca scientifica condotta dalla psichiatra Seena Fazel e dall'epidemiologo John Danesh del 2002, pubblicata sulla rivista medica inglese "The Lancet",  che conferma come sia in crescente aumento il problema della salute mentale nelle istituzioni carcerarie e dove il carcere appare quindi con tutta evidenza un contenitore in grado di concentrare disturbi mentali.
Gli autori hanno preso in esame 62 diverse indagini psichiatriche, condotte sia prima che dopo il 1990 nelle prigioni di molti paesi occidentali, in tutto 22790 detenuti. Hanno rilevato che nel 65% dei casi gli uomini manifestano un disturbo di personalità e di questi il 47% ha diagnosi di disturbo antisociale, mentre le donne soffrono di disturbi di personalità per il 42% e hanno una diagnosi per disturbo antisociale con frequenza del 21%.
Per non allargare troppo la riflessione sul problema delle condizioni di salute della popolazione carceraria, prendiamo in considerazione selettivamente il programma che propone il trattamento dei soggetti cosiddetti antisociali. Verifichiamo sperimentalmente, leggendo i risultati delle esperienze più recenti di trattamento, anche a livello internazionale, le basse percentuali di successo misurate sulle statistiche che esprimono la percentuale di reiterazione del reato.
Questa categoria clinica viene classificata da G. O. Gabbard come la più approfonditamente studiata tra quelle che rientrano nel disturbo di personalità. Leggiamo che nella situazione terapeutica questi pazienti possono mentire, ingannare, rubare, minacciare e mettere in atto qualsiasi altro comportamento irresponsabile. Definiti come psicopatici, sociopatici, affetti da disturbi del carattere, termini che, in psichiatria, sono stati tradizionalmente associati all’incurabilità. Qualcuno si spinge ad affermare che tali pazienti dovrebbero essere considerati criminali e non essere inclusi nell’ambito della psichiatria.
Solo questo potrebbe bastare per farci desistere dall’idea di tentare ancora una volta una cura dove verosimilmente hanno fallito specialisti e terapeuti molto preparati e con grande esperienza. Per chi ha avuto modo di conoscere dal vivo questi individui non può non aver provato una netta sensazione di impotenza, paura e rabbia, forte repulsione e bisogno di tenere sempre molto alta la guardia. Tuttavia l’esperienza clinica suggerisce che l’etichetta di antisociale è applicata a un ampio spettro di pazienti, da quelli totalmente incurabili a quelli che sono curabili ma solo in determinate condizioni.
Questa situazione provoca in tutti gli operatori della salute mentale e tra i criminologi un forte senso di smarrimento che però, beninteso, non è sufficiente a produrre un arresto del desiderio di comprendere e non smarrisce la volontà di raggiungere un miglioramento delle condizioni di benessere nei penitenziari e tra la popolazione in reinserimento carcerario.
Forse dobbiamo interrogarci anche sul fatto che i criteri diagnostici per il disturbo antisociale riflettono aspetti del comportamento che come sottolinea anche Gabbard, restringono il punto focale del disturbo a una popolazione criminale connessa con ceti sociali inferiori, oppressi e economicamente svantaggiati. Fotografia della larga maggioranza di soggetti che ritroviamo all’interno delle carceri di tutto il mondo.
La possibilità di recupero appare concretamente molto difficile, soprattutto per il fatto che i soggetti da trattare rivelano strutture di personalità estremamente rigide e inattaccabili. 
In questo potrebbe entrare in gioco l’azione concreta della psicoanalisi che come diceva Jacques Lacan si inserisce nell'ordine duro della razionalizzazione estrema dei soggetti e porta al rifiuto di ogni discernimento conducendo in prigione un gran numero di soggetti psicotici. L’atto del soggetto criminale è infatti determinato da una forza di carattere costrittivo e di questa azione criminale il soggetto deve certamente rispondere. Se è giusto che ne risponda e di come deve rispondere non sta a noi psicologi deciderlo. Ma dove subiscono un arresto le discipline che provano a cambiare la performance del soggetto, la teoria psicoanalitica si fa avanti per cercare chi ha ceduto alla propria costrizione. La psicoanalisi può quindi certamente comprendere le dinamiche individuali, come espresso da Alain Miller è la sola che abbia un'esperienza dialettica del soggetto; lo psicoanalista sa essere oggetto, non volere niente a priori per il bene dell’altro, essere senza pregiudizi quanto al buon utilizzo che può essere fatto di lui. La psicoanalisi racconta dell’individuo nella sua unicità, e come dice Francesca Biagi-Chai ritrova la singolarità del soggetto, per quanto dissociata, oggettivata, violenta o crudele essa sia. E il registro delle controindicazioni si decide allora caso per caso.

 

 

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