mercoledì 30 luglio 2014

Il calderone psicodinamico

di Giacomo Contri


Due le tentazioni per lo psicoanalista, ambedue a modello tradizionale: quella apologetico-difensiva, più antica, e quella più recente dell'ecumenismo del "Dialoghiamo!": psicoanalisi-neuroscienze-psicologia sperimentale-epistemologia-bioetica...
Considero utile quel titolo per discutere che cosa è finito. Secondo me è finito proprio ciò che la faceva finita con la psicoanalisi. È finita la parola-pasticcio "psicodinamica". Che cosa significa questa parola? Ecco il punto: non significa, e basta, se non il pasticcio stesso, meeting point verbale di tutto e il contrario di tutto: le correnti post-freudiane più diverse, e anche quelle poco o tanto antifreudiane. Psicoterapie altamente difformi tra loro in teoria e tecnica, orientamenti psicoclinici e psichiatrici agli antipodi. Unico collante: il comune uso arruffato dell'ormai oscurissima parola "inconscio". Da qualche tempo, a livello internazionale, si è aggiunto alla compagnia lo sciamanesimo, tutti nell'oscurantismo della stessa barca.
Perché questa parola, la parola d'ordine di una sovietica coabitazione forzata di tutti sotto il medesimo dissestato tetto? Risposta: per ignorare la psicoanalisi fingendo di ospitarla in uno habitat inabitabile. C'è la battuta sull'Ignoranza: "Strana lingua l'inglese: si scrive Shakespeare e si legge Schopenhauer!". Meno nobilmente: si scrive psicoanalisi ma si legge psicodinamica ossia confusione.
    Ignorare, che cosa? Il progetto stesso di Freud: che si proponeva come scientifico in ordine a che la scienza fosse scienza, a partire dal suo giudizio sull'inidoneità della scienza a rendere conto, e anche solo a configurare, determinati fatti: le forme della psicopatologia, il pensiero individuale, l'implicazione attiva del pensiero individuale nella determinazione e conservazione delle forme della psicopatologia (tale implicazione attiva ha chiamato ora rimozione, ora rinnegamento, ora difesa, ora resistenza), e non solo della psicopatologia, ma anzitutto quelle della legge di moto del proprio corpo (il concetto freudiano di lavoro di pensiero). Allora una scienza della competenza individuale nella legge di moto del corpo. Freud ha asciuttamente osservato che non è ancora scienza una scienza cui sfugga il senso di quel fatto del pensiero individuale che è detto "sogno". In fondo imputava alla scienza di essere incapace di intendere e volere in certe direzioni. Così facendo obbediva al criterio almeno razionale del rifiutare che certi fatti umani siano consegnati a istanze spiritualistiche od oscurantiste. Per completare la scienza ne ha inventato un'altra con nuovi concetti, non riducibili a concetti anteriori, semmai riproponibili in concetti ulteriori.
    Ogni volta che si parla o scrive di psicoanalisi come "psicodinamica", possiamo osservare che non si entra mai nel merito di tali concetti, e si lascia che l'uditore o il lettore intenda proiettivamente quel che può intendere. E si deve riconoscere che tali concetti, non perché oscuri, restano da elaborare. È stato un errore, anche da parte di psicoanalisti, credere che Freud fosse solo il punto di partenza: era il punto di arrivo, punto di arrivo anche per la scientificità della scienza. Per Freud la storia della scienza era lungi dall'essere qualitativamente finita.
   Ciò è importante oggi che la scienza stessa è a rischio, se si pensa che è diventato tenue se non negato il confine tra scienza e letteratura. Va bene la negazione dell'esistenza di Dio, ognun se la veda: ma ora siamo alla negazione dell'esistenza della scienza. Non da parte di Freud, che della scienza è stato amico lavorando a incrementarla.
    Osserviamo che le recenti "scienze cognitive" hanno compiuto un atto analogo a quello di Freud, benché di segno opposto: si sono anch'esse proposte come nuova scienza che aspira, come parte, al nuovo disegno del tutto, senza per questo essere affatto omologhe alla scienza precedente (fisica, biologia). Infatti sono scienza del comando (il computer con i suoi algoritmi è comando), mentre la necessità propria delle leggi scientifiche non è in alcun modo quella imperativa del comando. Allora si riapra la discussione: non è corretto avere due pesi e due misure. La discussione su queste scienze è persino diventata condizione, o almeno occasione, per lo stato di salute della scienza.

mercoledì 21 maggio 2014

Scuola lacaniana di psicoanalisi

Scuola lacaniana di psicoanalisi

“Chi non è innamorato del suo inconscio, erra”[1]

 
Paola Francesconi
 
 
Lacan non si accontenta di quello che era stato detto prima di lui sull’amore e su quell’amore in gioco nell’esperienza analitica che è il transfert. Egli introduce, nel Seminario VIII, il piano della mancanza sia dal lato dell’amante, il che non contraddiceva la  doxa vigente, sia dal lato dell’amato, che invece la contraddice. Il registro dell’avere è escluso per ambedue, il primo dà ciò che non ha, il secondo non sa ciò che ha, ciò per cui è amato. Il primo non sa quello che gli manca, il secondo non sa quello che ha. Lacan, per la prima volta, connette l’amore al sapere, a ciò che dai due lati dell’amore non si sa: dall’avere, che alimenta l’idea dello scambio amoroso possibile, si passa all’essere sotto forma del sapere: cosa l’uno è per l’altro, non si sa.
E Lacan dice che l’amore e la supposizione di sapere coincidono, colui cui suppongo il sapere, l’amo. Ma si tratta di un sapere che fa segno, non è un sapere compiuto in una significazione precisa, è la promessa di una significazione, supposta.
L’amore per l’inconscio, che è sinonimo dell’amore di transfert, secondo Lacan, è riconoscimento di ciò che fa segno, enigmatico, dell’incidenza di qualcosa, di un sapere che sfugge a chi lo contiene, come l’agalma socratico, che chi ne è depositario non sa. Quale migliore definizione dell’inconscio, un sapere che è in noi ma che è più di noi, che dice più di quello che diciamo, altro e di più?
In un mondo dove comanda l’imperativo di godimento, è allo zenith, l’amore è in controtendenza rispetto alla spinta al godimento e all’avere, avere sempre di più: esso infatti reintroduce la mancanza e la valorizzazione del non avere, nella forma del “non si sa cosa” si ha o l’altro ha, e che implica dunque l’essere. L’amore rieduca alla mancanza, reinstaura la virtù allusiva che gli appartiene rispetto invece al godimento imperante, che è più dell’ordine della certezza.
Il transfert opera quella connessione tra mancanza e sapere che mobilizza questo registro inedito dell’amore: si dà ciò che non si ha già per il fatto di impegnarsi in un legame che fa perno su quel sembiante d’oggetto che è l’analista, per stabilire con il proprio inconscio quel rapporto in cui l’amore orienta tutto ciò che può emergerne come sapere. Il sapere non è mai senza l’amore, in psicoanalisi.
L’amore per l’inconscio, cosa vuole, allora, dire? Poiché l’inconscio ha uno statuto non ontologico, ma etico, esso esiste solo se ci siamo noi, in virtù della nostra presenza, dopo quella di Freud, ovvero di qualcuno che, per la prima volta,  ha voluto che esistesse, e che ha voluto andare a capirci, “a ritrovarcisi”. Se occorre il desiderio dell’analista per far esistere l’inconscio, occorre anche che il sapere supposto che gli appartiene diventi sapere tramite l’amore, come dice Jacques-Alain Miller[2]. E’ ciò che si lega alla valorizzazione dei particolari, dei minimi dettagli. Far parlare il segno nella parola, nel racconto, nei sogni, nei lapsus. Come l’infimo segno dell’inconscio fa cambiare il senso di ciò che prima ci appariva in un modo e ora in un altro, a partire da un nonnulla. E’ tale l’artificio dell’amore di transfert che fa parlare nell’Altro l’amore del soggetto per il proprio sapere inconscio, che è in lui senza che lui lo abbia.
L’amore per l’inconscio residuale all’esperienza è rapporto alla supposizione di sapere non più rispetto al proprio inconscio, ma, più propriamente, rapporto alla supposizione nel suo legame alla causa analitica. Amore per la causa che non si liquida a fine analisi, che vi sopravvive, e perdura al di là.
In un mondo dove a comanda, la psicoanalisi offre la possibilità di reintrodurre in un i(a) che, contenendolo, ne reinstauri la potenza allusiva, e consenta di estrarlo, alla fine, dalla caduta di un soggetto supposto sapere, attraverso l’esperienza soggettiva, sempre singolare, di un amore inedito. Laddove, al contrario, tale oggetto, posto allo zenith, vi brilla sinistramente spogliato di ogni supposizione, isolato nella certezza uguale per tutti.
L’amore per l’inconscio lascia il posto, dopo l’esperienza, all’amore per la Scuola, al desiderio per la causa che essa contiene: non “godimento” per la Scuola, infatti, ma amore, desiderio, per essa. E’ l’obiezione feconda della psicoanalisi, con Lacan, all’imperativo di godimento della nostra, così ricca di discordanze, epoca.
 
 
 
 
 


[1] J. Lacan, Le SéminaireLes non-dupes errent, lezione del 11.6.1974, inedito
[2] J.A.-Miller, Una fantasia, in La Psicoanalisi n°38, Roma, Astrolabio 2005, p.34

giovedì 15 maggio 2014

Transfert e preliminare

Giovanna Di Govanni
 
Al principio della psicoanalisi è l’amore di transfert, ma quale amore ?
Già Freud metteva in guardia : amare è voler essere amati, ricercare il complemento che manca per la pienezza di un godimento totale, l’Ideale perduto per sempre,”talchè in lui io possa amare me stesso.. “1.
Nell’analisi, l’Altro che sa mi trasmetterà il suo sapere sul mio essere, nella speranza che la conoscenza diminuisca non solo l’ignoranza,ma anche la sofferenza,il dolore,la lacerazione di cui non voglio sapere niente.
Ma se l’analista promette anche solo l’uso dei beni,inganna,dice Lacan 2.
L’analisi infatti si può concludere solo sul punto dell’impossibile di ogni aspettativa e sull’instabile equilibrio di accesso al disessere.
L’Altro non detiene il segreto sul mio essere, anzi abbandona sulla soglia del reale privo di ogni senso 3.
Non c’è nulla da sapere,solo qualcosa con cui cercare di “con-vivere”,a cui dare una forma nella contingenza più pura 4.
Attualmente si osserva l’ascesa sociale del godimento,come paradigma di vita,ma già Freud e Lacan osservavano che l’esistenza dell’essere umano non può darsi senza un minimo di godimento.
Qual è allora la particolarità nell’oggi,di cui la psicoanalisi occorre tenga conto?
Pare essere non tanto la volontà del godimento,ma la sua spersonalizzazione,massificazione,come fenomeno dell’epoca.
Non una ricerca del godimento utopico anelato singolarmente,ma un’adesione alla spinta che propone modelli già pronti per tutti.
Non a caso spesso il lamento iniziale portato al terapeuta non è sulla propria sofferenza,ma sul godimento visto e non raggiunto: “come fanno gli altri? Mi dica,mi spieghi.”
Il godimento è già lì e il soggetto si percepisce inadeguato a usufruirne secondo la spinta corrente.
E’ sulla massificazione del godimento che la psicoanalisi si trova  a dire qualcosa,confrontata con quell’impossibile strutturale di cui ci dicono Freud e Lacan.
Il soggetto attuale non chiede solo di essere liberato dalla sofferenza,come sempre l’uomo nei secoli,ma ne indica già i modi e ne vuole tempi rapidi.
Questa richiesta,tipica dell’attualità,non è rivolta solo allo psicoanalista,ma a chiunque operi nel campo  della relazione umana.
E’dunque nella risposta che si gioca la particolarità della psicoanalisi,nel lasciar balenare che,dietro il godimento supposto già pronto e a cui il soggetto chiede di essere adeguato, in una sorta di chirurgia plastica psichica,qualcosa di singolare lo muove.
Qualcosa di ignoto a lui stesso e all’analista,ma di cui l’analista con il suo desiderio indica,come l’Uomo mascherato del Risveglio di Primavera,che c’è una via per farne qualcosa 5.
E’ allora,in questo primissimo approccio ,che si gioca la possibilità di un amore che l’analista può far intravedere al soggetto, oltre la sua persona e diretto all’ignoto che abita ciascuno.
Se sarà raccolto.
In questa clinica il preliminare si sposta.
Non è tanto dall’amore immaginario per l’analista a quello per il sapere,ma piuttosto da una generalizzazione al particolare che l’analista incarna e tenacemente indica.
L’analista qui è chiamato,nei modi dell’attualità e della sua singolarità,all’impossibile del suo compito,non derogare dai fondamenti analitici ma anche avere un’attenzione particolare al soggetto e al suo limite singolare ,anche di accesso al discorso inconscio.
Sempre più e non meno infatti,ci sono richieste allo psicoanalista,ma solo pochi accedono ad una analisi,ad un voler sapere del singolare per eccellenza, dell’inconscio.
Già Freud indicava come non adatto all’analisi chi non la chieda con una sua dolorosa domanda 6.
 
Oggi non è tanto o solo la spinta dell’altro familiare,ma piuttosto dell’Altro sociale a indirizzare all’analista.
Occorre allora trasformare la richiesta alla psicoanalisi come a uno dei tanti rimedi attuali,che il mercato offre per curare la carenza di godimento, in domanda all’analista di un proprio singolare sapere sul maneggiamento del reale impossibile.
E’ la sfida che occorre raccogliere.
Sempre,in fondo,sono stati gli scarti del “sapere” ufficiale che la psicoanalisi accoglie e a cui non
può rispondere se non l’atto dell’analista,mosso dal suo desiderio.
 
 
1-    S.Freud, Il disagio della civiltà, Torino 1978,Opere vol. 10,p.597.
2-    J.Lacan,Il Seminario Libro vii,L’etica della psicoanalisi,Torino 1994,p.380
3-    J.A.Miller, Un grande disordine nel reale nel XXI° secolo
4-    J.Lacan, Il Seminario Libro XX Ancora,Torino,1983,p.145
5-    J.Lacan, Prefazione al Risveglio di Primavera di Wedekind, in La Psicoanalisi n.7
6-    S.Freud, Frammento di un’analisi d’isteria (caso clinico di Dora), Torino 1970,p.317 e nota p.358

sabato 10 maggio 2014

Madre/figlia:il corpo a corpo con la madre

di  Luisa Borrazzo

L’argomento permette, anzi richiede, di esplorare alcuni aspetti: il rapporto tra i genitori e figli, la dimensione del corpo, la peculiarità del disagio del soggetto femminile.
Per coloro che, come chi scrive, lavorano seguendo gli insegnamenti di Sigmund Freud e Jacques Lacan, non è mai inutile ricordare che ci si rivolge sempre all’uno per uno. E’ impossibile generalizzare, sostenere che ciò di cui si tratta in queste righe è universale, valido per tutte le madri e per tutte le figlie. Di questo bisognerebbe sempre tenere conto, anche quando potrà sembrare che il discorso abbia una portata generale.
Si tratta ora di rilevare alcuni elementi essenziali: la madre, la figlia, il corpo a corpo – nelle varie accezioni possibili -, la dimensione di problematicità di questo rapporto nell’attuale.
In primo luogo, domandiamoci cosa è una madre. La risposta non è scontata. Possiamo dire che la madre è l’altro per il suo bambino, l’altro con la A maiuscola, l’Altro da cui il bambino, nel suo venire al mondo, dipende totalmente. La madre è un’entità potente, anzi onnipotente, in quanto può dare, o no, ciò che serve al bambino per sopravvivere – il cibo, le cure. Ella può concedere o rifiutare tutto. Quindi, è un Altro che ha e che può dare e che, al di là di questo, al di là di ciò che può dare, per il fatto stesso di dare, dà ciò che non ha al bambino: il suo amore.
Per esempio, se un bambino piange e la madre accorre, questo grido del bambino gli viene restituito dall’Altro materno in forma simbolica, significante, di parola – “ma allora cosa c’è, che ti succede, hai fame, hai male al pancino…” -. Questo non è dare ciò che si ha, non è dare un oggetto, ma è il dono per eccellenza, quello della parola. Non va da sé che un bambino che riceva tutte le cure essenziali per sopravvivere e star bene fisicamente riceva anche questo dono e, tal proposito, si possono richiamare i famosi studi di René Spitz. Spitz era uno psichiatra austriaco che aveva osservato come molti neonati senza genitori e allevati con le cure essenziali in istituzioni, si lasciassero in pratica morire, manifestando dapprima i sintomi della “depressione anaclitica”, vale a dire calo ponderale, rifiuto del contatto, insonnia, ritardo motorio, disturbi dell’alimentazione, e poi quelli del “marasma neonatale”: totale passività, completo ritiro dal mondo esterno, accresciuta sensibilità alle infezioni anche banali e quindi netto aumento del tasso di mortalità. Questo accadeva perché l’istituzione dava a questi bambini tutto ciò che aveva e poteva dar loro – il cibo, l’igiene… -, ma non quello che non aveva: l’istituzione non dava a ciascuno di questi bambini il dono dell’amore e, per ciò stesso, essi non erano nella posizione di poter essere desiderati. Essi non ricevevano delle cure particolarizzate.
Torniamo alla madre. La madre è una donna, per definizione. Una donna, per contro, non è un Altro pieno, ma colei che incarna, che presentifica a livello del proprio corpo, una mancanza reale, l’essere priva del fallo, e che offre tale mancanza al partner, mancanza che è esattamente ciò che la rende desiderabile, per un uomo.
Quindi, madre e donna parrebbero essere due entità in reciproca contraddizione. Addirittura, per cominciare a rendere la questione più intricata, J. Lacan diceva che La donna non esiste, mentre la madre sì. Possiamo tradurre questo notando come la madre esista in quanto Altro pieno, Altro che è nella posizione di dare al bambino, e che la donna, in quanto incarnazione della mancanza nel reale del suo corpo, possa esistere nella sua particolarità e non come concetto generale, universale.
La madre può essere per il momento rappresentata come un Altro pieno, ponendo, temporaneamente, per convenzione, che non sia mancante, mentre scriviamo così:


La donna


l’inesistenza della donna come entità generale ma, naturalmente, la sua esistenza come essere particolare: esistono le donne, prese una per una. Non c’è un significante, una parola, che definisca la donna in quanto tale, e ciò porta a dire che la donna in quanto tale è inafferrabile, e che brilli più per la sua assenza che per la sua presenza, poiché non è mai tutta qua, ma sempre un po’ altrove. Va notato che la barra è posta solo sull’articolo determinativo e non sul sostantivo, il che vuol dire che la donna non è riducibile ad una definizione. Le donne esistono in un modo non specificato, una per una, ma ad esse non è attribuibile alcuna universalità. Al tempo stesso, ognuna è simile alle altre nel suo essere inafferrabile.
Tutto questo è molto complesso, ma vi ritorneremo.
Quindi, c’è un’antinomia fra donna e madre. Come ricomporla? Perché, stando così le cose, sembrerebbe che una donna, per essere tale, non possa divenire madre. In effetti, è una scelta che molte donne compiono nell’attuale, una scelta che, fino a non molto tempo fa, non era “socialmente accettabile”: seguire i propri desideri, realizzare l’aspirazione di far carriera, ad esempio, può comportare logisticamente, almeno per un certo periodo, l’esclusione della scelta della maternità. Si potrebbe obiettare che, se una donna sceglie la carriera, “fa un po’ l’uomo”, e non si presta ad essere un pieno esempio di femminilità. Allora, qual è la strada che una donna deve seguire per esser tale? Molto semplicemente, tale strada non c’è. Il fatto che non ci sia, è la prova di ciò cui si accennava prima: l’impossibilità di una definizione universale per la donna. Questa strada di possibile realizzazione del femminile non si ravvisa mai del tutto, quindi, né nel far carriera, né è trasmissibile da madre in figlia attraverso la tradizione familiare, né si identifica nel divenire madre. Anzi, paradossalmente, la maternità può costituire un modo di rifiutare la femminilità, soprattutto nei casi in cui l’uomo, il padre del figlio, è respinto come partner.
Oggi una donna può quindi scegliere se e quando generare un figlio. Anzi, la maternità sembra in certi casi occupare un posto abbastanza marginale nella cultura e nell’identità femminile e forse questo spiega il fatto che la maternità stessa tenda a comparire come sintomo: anoressia, aborti ripetuti, sterilità – che, se psicogena, pone la donna davanti all’impossibilità di generare nonostante il desiderio -, gravidanze ad ogni costo… L’identità femminile è cambiata: donna e madre non coincidono più come un tempo, la società odierna accetta e non colpevolizza una donna senza figli, ma ciò non implica che la mancata maternità non divenga una ferita narcisistica dolorosa, simile al lutto. Questo può avvenire perché la maternità, così ci insegna la psicoanalisi, non è puro processo biologico, non è una semplice potenzialità biologica che può essere sfruttata o meno, ma concerne da vicino la soggettività di ogni donna.
Eppure, la soluzione dell’essere madre per poter pienamente dirsi donna, è stata e forse è tuttora considerata un’equivalenza valida. Una donna che è madre ottiene un riconoscimento simbolico, ufficiale, potremmo dire, del suo essere femminile. Essere incinta o madre, per una donna, comporta un segno, visibile, di appartenenza fallica. Una donna che è incinta è stata desiderata, è stata la donna di un uomo.
Lo stesso S. Freud, fondamentalmente, la pensava così. Freud, sino alla fine della sua vita, si è interrogato sul mistero della femminilità, su questo "continente oscuro", senza trovare una risposta definitiva. Freud ancora non poteva sapere che questa risposta non esiste, e questo ha a che fare con quanto accennavamo prima con la scrittura de La donna. La sessualità femminile non solo è stata per Freud misteriosa sino all'ultimo, tanto che era rassegnato all'impossibilità di ricavare un modello univoco di come essa si articoli, ma possiamo dire che già egli aveva colto come essa sfugga all'universale, quando ha osservato che è impossibile universalizzare un esempio particolare: ciò che è proprio di una donna non sarà di un'altra.
E’ noto che Freud ha introdotto il complesso di Edipo come momento strutturante, come passaggio essenziale per la articolazione della soggettività del bambino. Nei lavori che Freud ha dedicato, negli anni, a questo tema, è emersa gradualmente una differenza profonda dell’Edipo nei due sessi: quello che vale per il maschile non può essere esteso al femminile.
Mentre il bambino vede ridimensionato il legame primitivo con la madre per l’intervento di interdizione del padre – o di ciò che esercita questa funzione, che consiste, in una parola, nel far sì che la madre desideri altro, oltre il bambino -, interdizione che contiene in sé una promessa, la promessa di poter aver accesso ad una donna, in futuro -, per la bambina le cose vanno diversamente: sono più complicate e richiedono un giro in più.
Infatti, se la madre è comunque il primo oggetto d’amore, sia per il maschietto che per la femminuccia, la bambina dovrà mutare oggetto, passare dalla madre, al padre. Il primo tempo, quello del vincolo primitivo fra la bambina e la madre, da molti autori post-freudiani definito preedipico, in questa sede ci interessa particolarmente. Va notato che Freud ha prestato attenzione in modo relativamente tardivo a questo legame originario madre-figlia, definendolo “la civiltà minoico-micenea che precedette quella greca” [1] , così come un periodo “difficile da afferrare analiticamente, così grigio e remoto, umbratile” [2] , un’epoca che cade sotto una rimozione profonda, che è difficile ricordare e sulla quale, quindi, è pressoché impossibile dire ma che, in qualche modo, fa ritorno. Può far ritorno in un modo sintomatico, per esempio.
Con Lacan vediamo qualcosa che sembra paradossale, cioè che questo vincolo “preedipico” è ciò che ci conduce ad un al di là dell’Edipo stesso. Ritorneremo anche su questo.
La bambina nel suo venire al mondo incontra la madre, che abbiamo definito sopra come Altro pieno, un Altro potenzialmente in grado di concedere come pure di rifiutare i suoi doni. La bambina cresce e, prima o poi, in un modo o nell’altro, viene a scoprire la differenza sessuale: giocando con un fratellino o un amichetto, nota che i maschi hanno qualcosa in più a livello del corpo, qualcosa in più di lei. Freud è lapidario ed efficace quando descrive questa scoperta della differenza sessuale da parte della bimba: “Essa l’ha visto, sa di non averlo, e vuole averlo” [3] .
La bambina, in un primo momento, rimprovera alla madre il fatto di tenere per sé questa cosa preziosa, mandandola in giro senza, poiché ella suppone che la madre non sia mancante, bensì fallica, completa: anche la mamma ce l’ha, ce lo deve avere.
Se Freud, rispetto a questo, rispetto al penis neid o invidia del pene, è stato accusato di fallocentrismo, è perché non ci si è resi conto del fatto che egli sottolineava l’importanza della funzione del fallo come marcatore della differenza sessuale e non quella del pene in quanto organo. Il fallo freudiano in realtà è un paradosso perché è un fallo immaginario: è il fallo che alla madre manca.
La bambina, comunque, si accorgerà che anche la madre è priva di ciò che lei vorrebbe tanto e qui, sempre secondo Freud, subentrerà la delusione e il disprezzo, rivolto alla madre e poi esteso a tutto genere femminile: “la svalutazione della femminilità”.
La domanda della bambina alla madre, una domanda di avere, di avere il fallo, non ha risposta, e questa fondamentale delusione sarà alla base di tutte le altre rivendicazioni che la figlia potrà rivolgere a colei che l’ha messa al mondo: il non averle dato abbastanza latte, l’averle preferito il fratellino, l’averle vietata la masturbazione… Tutte queste rivendicazioni andranno a velare e allo stesso tempo a sottolineare questa basilare disillusione della bimba in merito al poter avere il fallo e a saperne dotata la madre.
Qui si situa lo snodo essenziale, il punto di svolta per cui la bimba si distacca dalla madre e si rivolge al padre, in quanto completo di fallo, per chiedergli ciò a cui tiene tanto. La madre non può donare alla figlia ciò di cui entrambe mancano, per questo la bambina deve indirizzarsi al padre. Per Freud, quindi, l’invidia del pene spiega il distacco dalla madre e l’entrata nell’Edipo con questo passaggio dalla madre al padre, da cui la bimba può ottenere in dono un sostituto del pene, il bambino – non nella realtà, beninteso. La bambina scivola, lungo ciò che Freud chiama un’equazione simbolica, dal pene al bambino: al culmine del complesso edipico troviamo, nella bimba, il desiderio di avere dal padre un bambino, di generargli un bambino. Un desiderio che si conserva a lungo nell’inconscio, preparando la bambina alla sua futura funzione, di compagna e di madre – questo sempre secondo Freud. E’ un po’ come dire che l’amore per il padre servirà a prefigurare un momento futuro in cui, amando un uomo, la bambina divenuta donna potrà dargli un figlio, avere un figlio, e sentirsi lei stessa completata.
Questo è uno dei destini possibili dell’Edipo femminile, per Freud, che si affianca al “complesso di mascolinità” da un lato e alla perdita totale di interesse per la sessualità dall’altro. Questo destino di totale privazione della sessualità nella donna, un destino di rinuncia, sembra segnato, più degli altri, dalla traccia del rapporto madre-figlia: la madre perde valore – in quanto priva di fallo -, la femminilità perde valore, la sessualità perde valore e l’interesse per essa è azzerato.
Nel passaggio che la bambina effettua dalla madre al padre, non si tratta di una semplice permuta di oggetto, ma di un cambiamento segnato dall’ostilità, che finisce in odio. L’odio per la madre è più dovuto alla scoperta della sua castrazione – poiché la madre era amata in quanto fallica, completa - che alla rivendicazione di un fallo per sé da parte della bambina.
La figlia si distacca della madre, più che per delusione, per riconoscimento del fatto che la madre non potrà darle niente, trasmettere niente, poiché lo statuto della madre non poggia su qualcosa di trasmissibile. La figlia dovrà a sua volta, come a suo tempo la madre, da sola, inventare il suo modo di essere donna.
Freud usa il termine Umsturz, catastrofe, per definire il doloroso processo di distacco della bambina dalla madre. Quello che Lacan chiamerà ravage, che possiamo tradurre in italiano con devastazione. Non stupisce, in tal senso, l’osservazione di Freud che la bambina sembra rivolgersi al padre e quindi entrare nella situazione edipica come se vi trovasse un rifugio: un rifugio dalla catastrofe.
Ricapitolando, se all’inizio pare esserci amore della figlia verso la madre, in quanto la prima ritiene che la seconda sia completa, fallica, successivamente subentra la disillusione e l’odio. Non vi è approdo sul versante del vero amore che, abbiamo visto, è dare ciò che non si ha. Il luogo della madre coincide con il luogo della mancanza, del non avere e la bambina non se ne fa niente di ciò che la madre non ha.
Si può verificare una fissazione all’odio tra madre e figlia, una specie di sfasatura fondamentale, un non-incontro, per cui l’una chiede all’altra, con rabbia, di darle quello che solo immaginariamente ha, e non quello che non ha, che è ciò che condurrebbe alla domanda d’amore – per cui la madre chiede alla figlia di completarla, ad esempio le chiede di soddisfarla pienamente sotto il profilo delle regole educative che le dà, mentre la figlia continua a chiederle sempre nuovi oggetti, senza fine, perché nessuno è quello giusto, nessuno soddisfa pienamente.
Non è così difficile vedere, nel quotidiano, madri e figlie – bambine anche piccole – che si accapigliano, senza che nessuna delle due sia disposta a cedere – la bimba ad obbedire, la madre a dargliela vinta. In questi casi, la posta in gioco va ben al di là del visibile – il precetto educativo non rispettato -: la posta in gioco tocca questi due esseri, l’uno volto a sottolineare la mancanza dell’altro, come ad evitare di farsi carico della propria.
Quello che succede nel “vincolo preedipico” fra la bambina e la madre, non è senza effetti, anche a lungo, lunghissimo termine. In questo primitivo legame tra madre e figlia c’è qualcosa di illimitato, di incommensurabile, un godimento fuori legge: un godimento infinito, infinitezza che è la caratteristica che Lacan ha attribuito al godimento femminile. Il godimento femminile non è tutto sotto l’egida del linguaggio, del dicibile, ma una parte di esso vi eccede. Una donna può provare, non necessariamente ma ne ha la possibilità, un godimento di cui nulla può dire, se non che lo prova. E’ il godimento del mistico: pensate all’espressione sul volto di Santa Teresa d’Avila, così come la rappresenta Bernini. Questo godimento femminile supplementare è illimitato, pur essendo la legge paterna in esercizio, proprio perché non esiste definizione univoca per la donna: una donna non è mai tutta, è sempre un po’ altrove, è sempre un po’ straniera, un po’ altra, anche a sé stessa. Questo vale in special modo per gli eventi del corpo esclusivi del femminile, basti pensare il parto, ove una donna si misura con qualcosa che non poteva dire di sapere, qualcosa che eccede quello che si può trasmettere come un sapere – in un corso pre-parto oppure da un’altra donna, fosse anche la propria madre. Essere incinta, oltre ad essere qualcosa che marca fallicamente una donna, riprende qualcosa del rapporto madre-figlia, uno spazio di godimento senza parola, del quale non si può dire.
Qualcosa di questo rapporto, qualcosa del vincolo preedipico non si risolve ma resta tenacemente vivo nell’inconscio della figlia. Se la bambina prende il padre, come oggetto privilegiato, al posto della madre, questa sostituzione non è indolore o senza scarti ma ha un resto: l’odio. Per Lacan, l’odio è passione dell’essere – in quanto prende tutto l’essere del soggetto –, più antica di ogni altra.
Questo odio che insorge nella relazione madre-figlia può divenire molto evidente e non estinguersi con il passare del tempo, anche se può venire celato, o sovracompensato.
D’altro lato, una parte dell'ostilità depositata nel rapporto della figlia con la madre, può insinuarsi nella relazione con il padre e, da qui, in quella con il partner sessuale: questo perché, se il rapporto con il partner si è sviluppato sulla falsariga di quello con il padre, quest’ultimo si è costruito sulla base del rapporto della figlia con la madre. La poco lieta conclusione può esser quella, non così infrequente, dello stabilirsi di un ménage dove la lotta della donna con l'uomo subentra a quella della figlia con la madre. Pare che si trascini qualcosa di irrisolto. Una rivendicazione che continua tutta la vita.
Per inciso, la soluzione delineata da Freud è che, vivendo a fondo tale ambivalenza, il secondo matrimonio sarà più felice del primo. Non è detto che si debba cambiare necessariamente partner, ma ci si può limitare ad inscenare la commedia del rimatrimonio. Vi sono esempi cinematografici famosi, anche se un po’ datati, come Scandalo a Philadelphia, un bel film del 1940, che dimostrano questo: c’è un matrimonio estremamente conflittuale, un divorzio burrascoso, poi un re-innamoramento dei due stessi partner che conduce ad una seconda unione felice e definitiva.
E’ ora il momento di tornare su un punto toccato all'inizio. Avevamo provvisoriamente considerato la madre come Altro pieno, non barrato. In realtà, questo è preferibile che non succeda: è preferibile che la madre non sia tutta piena, che non impieghi il figlio per completarsi, per porre rimedio alla propria divisione. E’ invece auspicabile che il bambino divida la madre, anziché completarla, la divida tra la madre e la donna, la divida tra l’essere la madre di quel bambino e l’essere la donna che desidera altro oltre lui – nel migliore dei casi, un partner, un uomo che a sua volta desideri questa donna, senza spaventarsi del fatto che è anche madre.
La madre che è tutta e solo madre e nemmeno un po’ donna è una madre che non si lascia dividere dal bambino, ma lo usa per completarsi, lo reintegra, in un certo modo, come fosse una parte di sé. E’ la madre che Lacan, con un’immagine efficace e famosa, denominava la madre-coccodrillo, con le fauci sempre aperte pronte a chiudersi sul bambino. Perché esse non si chiudano è necessario un paletto, e la funzione di paletto è esercitata dal Nome del Padre.
Quindi, nel primo caso si ha una sovrapposizione, che possiamo rappresentare con i due insiemi, uno per la madre, l'altro per il bambino, in fig. 1, anziché una situazione, dove, all’iniziale vincolo tra madre e figlio, per effetto della funzione paterna, subentra una separazione e i due insiemi appaiono così disgiunti.
In tal modo, s ia l’Altro materno che il bambino risultano decompletati, in quanto la funzione del Nome del Padre ha operato una separazione, indicando un al di là, un oltre il bambino, dove possa rivolgersi il desiderio della madre. Si può dire, nel modo più essenziale, che il padre è ciò di cui la madre parla: qualcosa che a vario titolo cattura il desiderio della madre e di cui la madre parla al suo bambino e, per ciò stesso che gliene parla, esiste anche per il bambino..
Quindi, la madre deve essere mancante, e la mancanza della madre deve poter essere simbolizzata tramite la funzione paterna. Divenire madre comporta l’accettazione della mancanza, della castrazione. Il bambino deve rimediare a questa mancanza solo immaginariamente, non nella realtà, pena l’impossibilità di ottenere una posizione separata rispetto all’Altro materno.
Quella della madre-coccodrillo è una figura di madre pericolosa, ma non è l’unica che possiamo riscontrare. Nell’attualità è forse più frequente incontrare delle madri decisamente situate su un altro versante, sul versante solo-donna, una donna autosufficiente, che ha bisogno di poco, forse nemmeno di un partner, e che, all’opposto della madre coccodrillo, investe molto poco il bambino come oggetto. Il bambino entra così nella serie degli altri oggetti, per cui prima c’è la laurea, poi il master, il lavoro, la carriera, la promozione, il figlio, il lifting… il bambino entra in una seriazione, non gli è dato un valore speciale, non è in una posizione speciale nel desiderio della madre.
Entrambe queste posizioni, queste figure materne, seppure antitetiche, sono deleterie per il bambino. In entrambe manca un limite, una regolazione.
Nella prima, nella madre coccodrillo, non esiste un altrove che richiami il desiderio della donna nella madre, la quale si rivolge unicamente al suo bambino, si completa, realmente, con il bambino. Il bambino è un oggetto reale per la madre.
Nella seconda, non c’è limite nella misura in cui gli oggetti di soddisfacimento di una donna scivolano uno dietro l’altro, come se fossero equivalenti, senza che vi sia un limite al godere di questi oggetti, oggetti che sono usati e lasciati cadere, e il figlio è in questa serie.
Queste osservazioni valgono per bambini di entrambi i sessi e ad esse si aggiunge ciò che è specifico della relazione madre-figlia.

Abbiamo visto come la bimba prenda ad odiare la madre quando si avvede che l’ha messa al mondo, per così dire, poco dotata, non più dotata di quanto non sia la madre stessa. Può essere, del resto, che la mamma provi ostilità, un’ostilità ovviamente inconscia, nei confronti della figlia.
Per una donna, infatti, generare un figlio o una figlia non è indifferente: l’immagine del corpo del bambino è istantaneamente e radicalmente differente da quella della madre, la discontinuità è palese. “Solo il rapporto col figlio [con il figlio maschio] dà alla madre una soddisfazione illimitata ; di tutte le relazioni umane è questa in genere la più perfetta, la più esente da ambivalenze” [4] , diceva Freud. Non dimentichiamo che per Freud il desiderio di maternità è in relazione diretta con la castrazione, laddove il bambino viene al posto del fallo tanto desiderato e mai ottenuto. Una bambina completa meno la madre, immaginariamente, a paragone di un maschietto.
La bambina ha sostanzialmente un corpo simile a quello della madre e questo, anche solo ad un livello immaginario, comporta che la separazione non sia così immediata: c’è una continuità, anche se illusoria, fra madre e figlia.
Tale continuità ha radici profonde, e il mito lo testimonia. Basti pensare alla figura di Demetra e della figlia Persefone nella mitologia greca, due divinità distinte e pure talora rappresentate come un’unica entità. Il rapimento di Persefone da parte di Ade, dio degli inferi, desideroso di farne la sua sposa, introduce una netta frattura in questa continuità madre-figlia. Ade, attraverso la violenza del rapimento, inserisce una regolazione nella complementarietà Demetra-Persefone: da quel momento, la fanciulla trascorrerà sei mesi con lo sposo e sei mesi con la madre, non sarà quindi più solo figlia. Compare un elemento ulteriore, la volontà di Zeus, padre di tutti gli dei, figura al di sopra e a un tempo a lato di questa vicenda: Zeus, per mano di Ade, si introduce a regolare, a separare la coppia madre-figlia. Quindi, si potrebbe dire che il mito testimoni un passaggio dal ravage, dalla frattura nel primitivo rapporto madre-figlia, al ravissement, al rapimento. La figlia deve essere rapita per separarsi dalla madre. Ciò che la rapisce è qualcosa di radicalmente Altro: cosa c’è di più simile all’alterità del dio dei morti e del suo regno ctonio?
Rispetto al senso del termine ravage in Lacan, va notato che per lo psicoanalista francese il “preedipo”, il legame madre-figlia, non è una fase precedente all’Edipo, non va considerato come un tempo di preparazione all’Edipo, ma messo piuttosto in rapporto con un dato di struttura: la mancanza della madre, in quanto donna o, meglio, il fatto che la madre, poiché è una donna, si divide rispetto al suo godimento, che è in parte regolato dalla legge fallica, e in parte vi eccede. In parte è dicibile, e in parte non dicibile. Questo si riallaccia a quanto dicevamo prima, cioè che il preedipo porta, paradossalmente, ad un al di là dell’Edipo, a qualcosa che va oltre l’Edipo, va oltre la regolazione portata dalla funzione paterna, e si lega a quanto abbiamo visto all’inizio rispetto a La donna.
Dove emerge più massicciamente il ravage ? Laddove la funzione paterna sembra un po’ flebile, un po’ vacillante. E’ il panorama che ci si presenta con i cosiddetti nuovi sintomi, specie quelli inerenti alla sfera del femminile. Per esempio, cosa mostra un disturbo alimentare quale quello anoressico? Mostra, con le differenze che si coglieranno caso per caso, sin da come si presentano i loro corpi, che questi soggetti sono sempre e ancora figlie – quindi né madri, né donne – e che continuano ad attendere un dono dalla madre, continuano a reiterare un appello senza risposta, sino a che una domanda di cura non spezza questo circolo vizioso e, talora, letale.
Il corpo dell’anoressica può comparire come asessuato, l’amenorrea può presentarsi ad impedire, nel concreto, la generatività. La madre di queste donne è spesso un madre un po’ troppo potente, o capricciosa. Queste figlie dicono di no a quello che questa madre può dare – dicono di no al cibo che essa offre. Questo è, in primo luogo, un modo di porre un limite a questa onnipotenza della madre e di ribaltare i rapporti di forza – per cui sarà ora l’Altro, l’Altro materno, a dipendere dal capriccio della figlia – e, in secondo luogo, una modalità di reiterare un appello alla madre, all’infinito.
Quello che, nello svolgersi degli eventi edipici avrebbe dovuto essere un appello rivolto al padre, una domanda rivolta al padre, qua rimane un volgersi della figlia alla madre. Questo è spiegabile con l’inconsistenza della funzione paterna, inconsistenza cui il sintomo alimentare stesso pone rimedio, mettendo in scacco, finalmente, il capriccio di una madre poco regolato dalla legge paterna.
Si può veramente parlare qui di corpo a corpo: il corpo, segnato dal sintomo, viene, pur essendo una presenza muta, a parlare al posto di quello che non si può dire del rapporto madre-figlia, annodate in un vincolo dove l’odio ha prevalenza.
L’impossibile a dire ritorna nel sintomo.
Il corpo, nel disturbo alimentare, patisce ed incarna la sofferenza soggettiva. E’ un corpo che richiama lo sguardo dell’Altro, per scuoterlo dalla sua presunta onnipotenza. Attraverso il corpo, il soggetto domanda all’Altro, fa un appello all’Altro mentre lo rifiuta. Il “no” al cibo è un “no” all’Altro, all’altro materno, in particolare, un Altro che è rimasto sul versante del soddisfacimento del bisogno, del bisogno di cibo, senza andare la di là di esso, senza raggiungere quindi il versante della domanda, dell’amore, del dare ciò che non si ha.
Naturalmente questo è un esempio estremo: se la relazione fra madre e figlia possiede sempre e comunque un tratto distintivo di devastazione, non in tutti i casi ad essa fa da corollario l’emergere di tali sintomi. In ogni caso, ciascuna madre e ciascuna figlia, si trova a dover fare i conti con le forme particolari che tale devastazione assume. E’ un dato ineliminabile, una frattura non sanabile, sempre esistita, accentuata in modo particolare oggi, dove il valore dato alle cose, agli oggetti di godimento che si possono avere, prevale sul rilievo attribuito al senso e, potremmo dire, all’essere. Ogni donna, madre o figlia, ha da trovare un modo per saperci fare.


riferimenti bibliografici

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FREUD , Sigmund, Der Untergang des Oedipuscomplexes, “Int. Zeitschrift für Psychoanalyse”, vol. 10 (13), 1924 [trad. it. Il tramonto del complesso edipico, in Opere, vol. X , Bollati Boringhieri, Torino, 1978].

FREUD, Sigmund, Einige Psychische Folgen des anatomischen Gaschlechtsunterschieds, “Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse”, vol. 11 (4), 1925 [trad. it. Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica fra i sessi, in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, 1978].

FREUD, Sigmund, Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Lipsia-Vienna-Zurigo, 1932 [trad. it. Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), in Opere, vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino, 1979].

FREUD, Sigmund, , Über die weibliche Sexualitat, “Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse”, vol. 17 (3), 1931 [trad, it. Sessualità femminile, in Opere, vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino, 1979].

Grando, Giuliana , “L’odio per la madre”, in La Psicoanalisi , n. 27, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2000, pp. 61-66.

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Laurent, Eric , “La commedia del rimatrimonio”, in La Psicoanalisi , n. 34, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2003, pp. 134-148.

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Miller, Jacques-Alain , Il bambino tra la donna e la madre , Comunicazione fatta nel contesto del Primo Convegno Svizzero della Scuola Europea di psicoanalisi, Losanna, 1-2 giugno 1996, organizzato dal Circolo di Ginevra e dal Circolo di Losanna. Trascrizione di Bernard Cremniter, non rivista dall’autore. Testo pubblicato in Filum, 14.


Miller, Jacques-Alain , “L a teoria del partner”, in La Psicoanalisi , n. 34, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2003, pp. 22-83.

Miller, Jacques-Alain , “ Madre Donna”, in Scuola Europea di Psicoanalisi Gruppo Italiano, Madre Donna – Atti del VI convegno del Campo Freudiano in Italia, pubblicazione a cura del GISEP, Roma, 1993.

Monselesan, Adriana , “ La lacerazione madre donna”, in Scuola Europea di Psicoanalisi Gruppo Italiano, Madre Donna – Atti del VI convegno del Campo Freudiano in Italia, pubblicazione a cura del GISEP, Roma, 1993

Naveau, L aure , “Femminilità e adolescenza. Un tempo d’incontro con la causa”, in La Psicoanalisi , n. 34, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2003, pp. 192-200.

venerdì 9 maggio 2014

Françoise Dolto, Il caso Dominique

di Camilla Del Pezzo


Francoise Dolto (1908-1988) è una delle prime psicoanaliste che si sono occupate dell’infanzia. Francese, allieva di Lacan e Sophie Morgenstern, inizia la sua professione come pediatra a 31 anni poco prima dello scoppio della 2° guerra mondiale. Il suo lavoro è collocato principalmente nel contesto istituzionale, all’interno del quale ella lavora con diversi ruoli (medico, pedagoga, psicoterapeuta) mantenendo sempre viva una riflessione critica orientata al metodo psicoanalitico. Dal 1940 al 1970 lavora come medico generico, pediatra, psichiatra e psicoanalista infantile ed è dopo 30 anni di lavoro che pubblica i suoi primi scritti: “il caso Dominique” (1972) e “Psicoanalisi e Pediatria” (1971). L’aspetto sociale, politico e divulgativo è molto presente in tutto il suo lavoro.
“Il caso Dominique” (1971), è uno dei suoi primi scritti clinici, attualmente non disponibile e scarsamente conosciuto. È tuttavia uno scritto molto interessante, uno dei rari esempi nella letteratura psicoanalitica di resoconti clinici di una psicoterapia dell’età evolutiva in cui sono trascritte integralmente tutte le sedute effettuate e rappresenta pertanto un utile strumento di ricerca e riflessione sulla clinica. Credo che a questo lavoro si possano forse un po’ accostare per similitudine riguardo tale scelta espositiva e metodologica solo i seguenti testi: Il piccolo Hans (1908) di S. Freud; Analisi di un bambino (1961) di M. Klein; Una bambina di nome Piggle. (1977) di D. Winnicott;  Dialogo con Sammy. Un caso di psicosi infantile (1969) di S.Lebovici, J. McDougall.
Il testo, pubblicato nel 1972, si riferisce ad un caso clinico (di un ragazzo pubere di 14 anni) trattato dall’autrice negli anni 60 a Parigi presso l’ambulatorio di un centro medico pedagogico.  
Nonostante il trattamento sia molto limitato nella frequenza delle sedute, in tutto 12 nel corso di un anno e 4 mesi (da giugno a ottobre dell’anno successivo), e la sintomatologia di Dominique sia particolarmente invalidante sul piano cognitivo e comportamentale, il ragazzo sembra progressivamente riuscire a compiere un’evoluzione abbastanza significativa, come se fosse riuscito a passare “dall’assenza alla realtà”.
Dominique viene descritto dal medico che lo segue come un “debole mentale semplice”. Il ragazzo si presenta disorientato,  distratto e come  assente: “Un sorriso enigmatico, a occhi socchiusi, erra sulla sua maschera fissa.” (cit. pag 17-18) Ha da sempre avuto una vita scolastica difficile; si isola, non riesce ad essere socievole e soffre inoltre di diverse fobie (biciclette e giostre), ha dei tic, delle manie, e diversi comportamenti bizzarri, ha sofferto di enuresi ed encopresi.  
Sembra che i suoi problemi siano coincisi con la nascita della sorella di 3 anni più piccola: è da allora che D. sembra aver perso molte delle competenze acquisite, inizia a soffrire di enuresi ed encopresi, diventa instabile ed aggressivo. Nel corso del tempo la situazione non sembra migliorare. Nel periodo che va dai 6 agli 8 anni il suo comportamento nei confronti della sorellina muta radicalmente, egli diventa molto gentile, ma contemporaneamente le sue competenze cognitive sembrano bloccarsi in maniera più sostanziale.
L’autrice, anche se segue principalmente Dominique, sembra avere molto in mente il gruppo familiare nel suo insieme, tiene in attenta considerazione gli aspetti inter-psichici accanto a quelli intra-psichici, si occupa di promuovere una riflessione sulla storia familiare, e formula delle ipotesi sulla trasmissione trans-generazionale di quelle che appaiono come delle lacune di pensabilità associate a degli eventi traumatici nella storia familiare che cercano voce esprimendosi nei sintomi del bambino.
La storia di questa famiglia è infatti molto particolare e ricca di eventi che appaiono significativi rispetto al disagio di D., in quanto sembra che non sia stato possibile sviluppare un pensiero intorno a questi. Sembra infatti che in reazione a degli eventi familiari traumatici, o in relazione a delle tappe evolutive importanti, si siano susseguiti tutta una serie di agiti con la funzione di allontanare l’angoscia e che non sia stato possibile elaborare dei lutti.
La crescita psichica sembra essere attivamente evitata mediante agiti tesi al distanziamento ed all’isolamento affettivo, e questa modalità di gestione dell’angoscia risulta particolarmente evidente anche nella storia familiare di entrambi i genitori. La madre definisce il suo rapporto con il marito descrivendosi come fossero “gemelli di miseria”: sono entrambi impegnati in rapporti conflittuali con i rispettivi genitori (in particolare la madre con sua madre ed il padre con suo padre) e sembrano avere sempre avuto entrambi un rapporto emotivo piuttosto distante dalle proprie famiglie di origine. Il padre ha perso due fratelli in maniera molto traumatica e la morte del secondo fratello coincide con la nascita di D. Quello stesso anno il padre cambia lavoro e inizia ad assentarsi molto da casa, diventando così una figura emotivamente periferica per tutta la famiglia. Alla nascita di Dominique cambia dunque radicalmente l’assetto familiare; questo grande cambiamento non sembra essere stato accompagnato da un adeguato spazio di pensiero ma, invece, sembra aver innescato una serie di agiti consolatori che sembrano aver ulteriormente bloccato il processo evolutivo di tutto il gruppo familiare.
Un aspetto interessante di questo caso riguarda il modo in cui l’autrice concepisce la patologia e la presa in carico dell’utenza. La richiesta che viene rivolta all’istituzione non è una richiesta di psicoterapia, ma di orientamento scolastico; ella accoglie tale richiesta offrendo uno spazio di riflessione rispetto alle possibilità ed alle difficoltà scolastiche di D., ma allo stesso tempo, cerca di inquadrare tali problematiche in un contesto di pensiero più ampio e di promuovere nel nucleo familiare una pensabilità meno scissa riguardo a queste. Nonostante D. presenti una sintomatologia marcatamente cognitiva, la Dolto lo diagnostica come psicotico e il trattamento psicoanalitico che effettua con lui, seppur estremamente limitato, sembra iniziare a ridare vita al mondo cognitivo del ragazzo.
Ci troviamo in una situazione di presa in carico istituzionale, in cui le risorse e le possibilità di lavoro sono molto limitate, per questioni anche pratiche; le scelte metodologiche che la Dolto effettua nella gestione del lavoro, sono guidate anche dall’esigenza di pensare a delle modalità per adattare lo strumento psicoanalitico in funzione del particolare contesto istituzionale e della particolare situazione sociale. Infatti la Dolto sembra utilizzare con creatività ed umiltà, tutti i mezzi a sua disposizione: nel corso del trattamento effettua due colloqui con la madre, con la quale mantiene anche una corrispondenza postale ed ha diversi scambi prima e dopo le sedute di D., vede una volta il padre e una volta il fratello maggiore di D.  
Il breve trattamento, sembra mettere in moto le difese di tutto il sistema familiare ed è evidente che la reazione del gruppo famiglia è quella di agire, in parte, contro il cambiamento evolutivo perché questo comporterebbe l’elaborazione di penosi sentimenti depressivi. Nel lavoro con la Dolto il padre sembra agire nel gruppo come l’elemento meno collaborativo e più problematico rappresentando un aspetto fortemente anti-evolutivo. È lui infatti che decide l’interruzione del trattamento psicoterapeutico di Dominique, esprimendo la sua sfiducia verso tale tipo di approccio e riguardo alla possibilità di miglioramento del figlio, nonostante i grandi progressi che il ragazzo andava facendo in poco tempo.
La Dolto sembra avere presente l’importanza del lavoro con i genitori ed in questo esempio clinico ci presenta la complessità di tale compito. Le esigue possibilità di lavoro non permettono ovviamente di prendere in considerazione e trattare la maggior parte degli aspetti problematici presenti. Tuttavia si ha la sensazione che l’autrice sia riuscita almeno in parte a promuovere nel nucleo familiare la possibilità di collegare le specifiche difficoltà di Dominique ad alcune delle dinamiche psichiche e relazionali proprie del nucleo familiare nel suo insieme; e che i diversi contatti con i diversi membri della famiglia siano andati come a creare un “campo” di azione contribuendo allo stabilirsi di una specie di transfert di gruppo, complesso e abbastanza ricco.

giovedì 8 maggio 2014

L'avvenimento della scrittura

a cura di Diego Fusaro

Il modello di testo che propone Derrida non è più omogeneo e padroneggiabile dall'autore che lo ha scritto, ma piuttosto strutturato in modo plurale e differenziale, pensabile come un tessuto di tracce e rinvii che ne fanno una manifestazione eventuale, un punto in perpetua trasformazione di un originario movimento di scrittura che impedisce qualsiasi sua riduzione ad una semplice forma di presenza. In realtà il proposito di Derrida sarà proprio quello di mostrare come ogni possibilità di presenza, di pienezza, di significato appartenga da sempre al movimento della significazione, ovvero a quell'"apertura della prima esteriorità in generale" che lega costitutivamente ogni presenza alla non-presenza dell'altro, ogni vita alla morte, ogni dentro ad un fuori. Per comprendere correttamente la sua prospettiva non si dovranno però intendere tali termini all'interno di semplici strutture oppositive, che li ricomprenderebbero all'interno di una logica dell'identità, quanto piuttosto si dovrà tentare di pensarli come coppie che si sollevano da quel fondo, da quella "riserva" costituita dal modo di accadere della traccia (che è già doppia, mai semplicemente se stessa, sempre eccedente, rinviante ad altro), dal quel gioco che si crea tra i segni di un testo e che corrisponde al lavoro attivo e supplementare della dif-ferenza, ovvero alla legge strutturale anonima, eccentrica e nascosta che è sottintesa ad ogni movimento significante. Al fine di ritrovare tale funzionamento autonomo dell'operazione testuale, Derrida propone così una pratica di lettura che, invece di proteggere i testi e di riconfermarli nella chiusura secolare da cui è nata la metafisica logocentrica e fonocentrica, li percorra sotterraneamente per aprirli dall'interno, guardando attraverso quella fessura che tali limitazioni, nonostante tutto, lasciano intravedere. L'intero progetto della Grammatologia può essere letto come un tentativo di decostruzione di quelle figure concettuali della metafisica occidentale che, formatesi in un preciso momento storico ed organizzatesi tutte attorno alla centralità di determinati nomi e forme verbali (quali ad esempio prossimità, immediatezza, voce, essere...), hanno assunto nel tempo una consistenza e una solidità tali da apparire come innocenti descrizioni linguistiche di strutture naturali ed eterne. Il testo in particolare si apre con l'annuncio di un movimento del linguaggio appena percettibile, quello del "significante del significante", della lingua come scrittura, per cui essa, da semplice ed inconsistente doppio, "comincerebbe a debordare l'estensione del linguaggio", a comprenderlo e a contaminare con la sua esteriorità ogni possibilità in generale di significato: "L'avvenimento della scrittura è l'avvenimento del gioco; il gioco oggi si riconsegna a se stesso, cancellando il limite a partire dal quale si è creduto di poter regolare la circolazione dei segni, e trascinando con sé tutti i significati rassicuranti, costringendo alla resa tutte le piazzeforti, tutti i rifugi del fuori-gioco che vegliavano sul campo del linguaggio" Tale avvenimento significa innanzitutto l'inizio della delimitazione dell'epoca metafisica, dominata dal privilegio della phonè, ovvero da un sistema linguistico che crede nella trasparenza e nella naturalità della sostanza fonica, nella vicinanza della voce alla presenza piena, e che da tale illusione produce l'idea di un senso esistente anteriormente, che non ha bisogno del significante per essere ciò che è, che può "aver luogo", nella sua intelligibilità, prima della sua "caduta" fuori, della sua trascrizione verbale e sensibile. In tale struttura logocentrica la scrittura (come evidentemente appare nell'ideale della scrittura fonetica) scadeva al ruolo di tecnica rappresentativa, di strumento pratico per la traduzione di una parola piena e pienamente presente a sé e al suo significato. L'operazione di Derrida tenterà di mostrare invece come non solo tale concetto di scrittura abbia una portata storicamente limitata all'epoca della nostra cultura onto-teologica, ma che costituisca anzi la condizione stessa della possibilità dell'apparire e del mantenersi di tale epoca, "che si avvicinerebbe ora a ciò che è propriamente il suo esaurimento". Esempio illuminante che testimonia questo stato dei fatti è quella che Derrida chiama " la morte della civiltà del libro ": l'idea del libro è infatti quella di un luogo che riunisce in una presenza simultanea la totalità del significante, che può essere tale solo a patto che gli preesista una totalità di significato ("il libro della natura" o di Dio) che ne regoli così la sua iscrizione; è con tale operazione di "protezione enciclopedica" che l'epoca logocentrica si è opposta all'"energia dirompente, aforistica della scrittura", si è garantita cioè la possibilità della sua stessa sopravvivenza. "Ma se il Libro fosse solo, in tutti i sensi dell'espressione, un'epoca dell'essere...se la forma del libro non dovesse più essere il modello del senso?", solo in tal modo potrebbe farsi strada la possibilità di un illegibilità radicale, originaria, non più in relazione ad una leggibilità perduta o non trovata, ma anteriore alla stessa epoca del libro. L'annuncio della distruzione del libro rientra nel più ampio proclama della " morte della parola ", della scomparsa "del primo significante", del privilegio dell' espressione orale come luogo di produzione dei primi simboli "in prossimità assoluta con l'essere", nelle vicinanze immediate con un senso interamente leggibile, e che permette di preservarlo dal movimento corrosivo ed ambiguo del processo della significazione. Il modello di questo logos puro e naturale è contemporaneo all'epoca teologica, "il segno e la divinità hanno lo stesso luogo e tempo di nascita": come il verbo divino è parola assoluta di una soggettività creatrice infinita, che crea le cose solo nominandole, così il linguaggio della metafisica, anche se espresso tramite un soggetto umano e finito, disponendo della voce come significante puro, è ancora pensabile in un rapporto immediato con il senso. Quando poi, al momento dei grandi razionalismi del XVII secolo, si costituirà l'idea di una soggettività come presenza assoluta a sé, come coscienza intuitiva che avviene nell'evidenza di sé, tale logos corrisponderà alla voce interiore della coscienza che intende se stessa, all'espressione spontanea della propria verità ed interiorità che non trae dal di fuori nulla, e che fonda perciò la possibilità di un'esperienza originaria di un significato che si produce in un'ideale cancellazione del significante: "nella chiusura di quest'esperienza la parola è vissuta come l'unità elementare e indecomponibile del significato e della voce, del concetto e di una sostanza d'espressione trasparente". Di contro a questa parola se-dicente, ad un "logos che crede di essere padre di se stesso", parola della vita (interiore) che sfugge al movimento del segno, la scrittura appare sempre seconda, istituita, "lettera morta e portatrice di morte", scrittura "del di fuori", perversa ed artificiosa, esiliata nell'esteriorità del corpo e delle passioni, ovvero in quel luogo ove si sono emarginate tutte le minacce all'unità del senso. Sulla scorta del pensiero nietzscheano, Derrida vede invece nella scrittura (e nella lettura) un'operazione "originaria" nei confronti del senso (il che non vuol dire, per semplice inversione, "che il significante sia ora fondamentale o primo"), il rischio permanente che minaccia di "spezzare il nome", di immobilizzare nella ripetizione della lettera la creazione spirituale nella parola, di interrompere con uno sdoppiamento l'unità privilegiata e immediata del suono e del senso nella voce. Benché infatti l'intenzione dichiarata dell'ideale di scrittura fonetica sia evidentemente quella di proteggere "l'integrità del "sistema interno" della lingua" dall'esteriorità della notazione, dal pericolo della raffigurazione, di fatto succede che essa da sempre non vi riesca: "quel modello particolare che è la scrittura fonetica non esiste; mai una pratica è fedele in modo puro al suo principio". Il fuori, ciò che dovrebbe rappresentare l'accidentale, l'inessenziale rispetto al dentro, alla logica interna ed interiore della parola, viene in realtà spesso analizzato con accenti che tradiscono una paura ingiustificabile verso ciò che dovrebbe solamente aggiungersi in modo esteriore ad una lingua inalterabile ed indipendente nella sua essenza. Il "vestito" della parola si trasforma così in travestimento, intrattenendo un rapporto con la sostanza che ri-copre "che è tutto meno che di semplice esteriorità", producendo piuttosto una serie di ambigui e al tempo stesso seducenti effetti di "inversione e perversione" tra immagine e cosa, tra grafia e parola, tra significante del significante e significante del significato: "in questo gioco della rappresentazione, il punto d'origine diventa inafferrabile"; la "perversione" di questo rincorrersi di rimandi risiede proprio nell'allontanare indefinitamente la possibilità di risalire chiaramente alla fonte e nel lasciar invece apparire solo l'avvicendarsi dei rinvii di specchi che sdoppiano in se stessi ciò che riflettono, facendo perdere la semplicità e la singolarità della sorgente. Il punto è che per Derrida "l'usurpazione ci rimanda necessariamente a una profonda possibilità d'essenza", mettendoci ormai nella situazione di intravedere come tale operazione di inversione e di disseminazione non appartenga solo alla scrittura, non colga indebitamente, pervertendolo, l'ordine "naturale" di un linguaggio puro ed innocente, ma costituisca il modo di accadere proprio di ogni significanza: "la scrittura non è segno di segno, salvo dire questo, il che sarebbe più profondamente vero, di ogni segno". Una volta preso atto di quella che Saussure denomina l'"arbitrarietà del segno", dell'istituirsi immotivato e convenzionale di uno spazio di iscrizione e distribuzione di differenze regolato da leggi autonome, si dovrebbe ormai essere nelle condizioni di escludere ogni possibile gerarchia o privilegio tra ordini di significanti. Superata la nozione di segno come immagine, come figura legata da rapporti di somiglianza con ciò che rappresenta, e quindi chiarito il funzionamento della lingua e della scrittura facendo riferimento alla capacità autonoma di sostenersi propria dei sistemi di segni, dovremmo ora esser nelle condizioni storiche di ammettere la "possibilità di un sistema totale di segni", in cui il collegamento tra significanti non è più modellato sul legame lineare che univa il suono al senso, ma avviene attraverso una "rete pluridimensionale" di rimandi, e lo apre così ad essere investito da ogni direzione possibile di ogni possibile senso. Da qui il ricorso di Derrida alla nozione di traccia istituita per decostruire il concetto logocentrico di segno, e per offrirci un punto di vista non più fonocentrico entro cui elaborare un modo per concepire l'accadere della scrittura. La traccia è in primo luogo immotivata, il che non significa che sia in balia dell'uso dei singoli soggetti parlanti, ma semplicemente che non ha "nella realtà alcun "aggancio naturale" col significato", ovvero che non è vincolata da alcun legame che in maniera necessaria, sicura, univoca le assicuri un unico modo di rinviare ad una presenza unitaria. Essa rappresenta la possibilità dell'annunciarsi del "totalmente altro" come tale, cioè dell'accadere, in ciò che non è esso stesso, di qualcosa il cui modo di esistere è "senza alcuna semplicità, alcuna identità..". La differenza, infatti, per apparire come tale, non può mai presentarsi in maniera piena, ma solo nella dissimulazione del suo "come tale", ovvero attraverso una struttura di rimando in cui si segna il rapporto all'altro non disponendosi nella presenza del significato, ma piuttosto nel differimento, ovvero nel modo proprio della traccia. In questo movimento del differire, la peculiarità del significante è quello di prodursi incessantemente come struttura di rinvio, di distrarsi continuamente da sé, di non essere mai prossimo, vicino, nella pienezza di sé. "Ciò che inaugura il movimento della significazione è ciò che ne rende impossibile l'interruzione. La cosa stessa è un segno": per Derrida una volta inaugurata la possibilità del senso, esiste solo il differimento dei segni, ovvero il gioco di rinvio di strutture doppie che funzionano solo in una rete di infinite potenzialità di significazioni, mai nella semplicità dell' evidenza intuitiva, nell'esperienza fenomenologica della forma pura della presenza. Una volta chiarito da Saussure come la condizione del "valore linguistico", ovvero del potere di significazione del segno, risieda nel suo carattere differenziale, nel suo apparire solo entro una struttura di opposizioni, e superato a partire proprio da questa stessa direzione il pregiudizio fonocentrico, Derrida può suggerire, attraverso la nozione strategica di traccia, l' ipotesi di un linguaggio che sia sempre stato nelle condizioni della scrittura, segno di segno e mai parola piena. Ed è in tale scrittura totale (o archiscrittura) che si dovrà vedere la possibilità generale di ogni movimento di significazione, di ogni articolazione differenziale tra i segni e di ogni rapporto all'altro. D'altra parte, il pensiero della traccia come "origine assoluta del senso", come "dif-ferenza che apre l'apparire e la significazione", ma che è essa stessa già da sempre in posizione di traccia, mai semplice presenza di senso, equivale anche al dire che non c' è alcuna origine assoluta del senso, alcun fondo anteriore, esistente solo come presenza piena e sottratto alla condizione del rinvio ad un passato, ad un qui-da-sempre, che la traccia ritiene sempre in sé: "lo strano movimento della traccia annuncia tanto quanto ricorda". Non potendo perciò ricorrere a concetti metafisici organizzati tutti sulla semplicità e sull'omeogeneità della presenza, si mostra come l'accadere della struttura della traccia non potrà prestarsi ad alcuna descrizione scientifica e positiva, a meno di tradirne la sua radicale passività, il suo rapporto costitutivo ad un passato assoluto che non potrà mai essere restituito all'evidenza della presenza. Un altro modello utile ad illustrare l'accadere decentrato di un linguaggio non più dominato dal privilegio della voce è per Derrida quello offerto dalla "scrittura teatrale", visiva, immaginifica dei sogni: la parola, infatti, riveste nella sintassi onirica un ruolo paritetico agli altri elementi della messa in scena, ridiventando un gesto, un segno corporeo che non fa più da semplice tramite per un concetto, ma che si impone come una forma dotata di una fisicità che può avere un volume, effetti seduttivi ed emanazioni sensibili. Tale scrittura psichica, più simile ad una geroglifica che ad una fonetica, è scrittura originale, primaria, irriducibile nel suo funzionamento a subordinata e posteriore trasposizione di una parola viva e piena, comportando aspetti ideogrammatici, pittografici, pluridimensionali e visivi che nella linearità della parola orale, della "catena parlata", tendono ad appiattirsi, fino a scomparire. Anche dalla radicalizzazione di questo modello, dal decentramento rispetto alla metafisica della presenza in cui è ancora immerso, per Derrida si offre indirettamente la possibilità di attingere al senso di ogni scrittura in generale come a quello di un movimento della traccia, che, pur operando con elementi comunque codificati (lungo il corso di una storia individuale e collettiva), è costitutivamente cancellazione di sé, non permette di essere avvicinata da alcun codice di lettura che la esaurisca. Ogni segno, verbale o non-verbale, può funzionare infatti a diversi livelli, entrando in configurazioni che non sono "prescritte" da una sua essenza, ma che scaturiscono dal gioco incessante della differenza, dal suo essere preso in una rete pluridimensionale di rimandi percorribile in direzioni non prestabilite. I segni così appaiono articolati come degli "indovinelli figurati", come dei rebus mai leggibili a partire da una chiave interpretativa universale; così come avviene per colui che sogna, ogni esperienza inconscia "inventa la propria grammatica", "produce i propri significanti", introducendo nelle sue operazioni un "residuo puramente idiomatico", un "corpo verbale" che inaugura ogni volta una nuova significanza e limita così definitivamente ogni possibilità di traduzione. Essendo quindi la materialità, il corpo dell'espressione verbale a lavorare ed agire nel sogno, ad imporsi e a non lasciarsi attraversare o trascurare a favore del significato (come avviene invece nel discorso cosciente), appare chiaro come qualsiasi sua traduzione completa sia impossibile, dovendo ogni passaggio ad un altro significante lasciar cadere proprio il corpo all' opera. Messe in relazione al soggetto parlante, la passività della traccia e la sua struttura differenziale ci rimandano all'incoscienza fondamentale del linguaggio, al radicamento della parola cosciente nella lingua che la eccede e la costituisce; ma per evitare il semplice rovesciamento di una metafisica della soggettività in una speculare "metafisica della scrittura", Derrida sottolinea che "Costituendolo e dislocandolo ad un tempo, la scrittura è altro dal soggetto, in qualsiasi senso lo si intenda. Essa non potrà mai essere pensata sotto al sua categoria; in qualsiasi modo modificata, sia essa affetta in modo cosciente o inconscio, essa sarà legata, per tutto il filo della sua storia, alla sostanzialità di una presenza impassibile sotto gli accidenti, o all' identità del proprio nella presenza del rapporto a sé" Per descrivere la situazione di un soggetto che è consegnato a un linguaggio che continuamente lo disperde è esemplare a questo proposito per Derrida la figura del poeta, l'"uomo della parola e della scrittura" per eccellenza. Egli è al tempo stesso il soggetto del libro, la sua sostanza e il suo padrone, e il suo oggetto, suo servitore e tema. Mentre il libro è articolato dalla voce del poeta, il poeta si trova ad essere modificato e letteralmente generato dallo stesso poema di egli cui è il padre, ma che producendosi si spezza e si piega su se stesso, diventando soggetto in sé e per sé: "la scrittura si scrive, ma insieme si immerge nella propria rappresentazione". In questa situazione, l'unica esperienza di libertà a cui il poeta può accedere, la sua "saggezza" consiste tutta nell'attraversare la sua passione, ovvero nel "tradurre in autonomia l'obbedienza alla legge della parola", nel non lasciarsi sopraffare, abbassare a semplice servitore del libro. L'unica forma di libertà a cui può accedere un uomo che appartiene radicalmente, visceralmente ad un tradizione linguistica, sarà allora quella che passa attraverso il riconoscimento dell'essenzialità, della costitutività dei propri legami; tale "identificazione" però, per essere emancipante, non può implicare la chiusura, la semplice delimitazione di uno spazio a cui si deve appartenere in maniera esclusiva, quanto piuttosto costituire l'esperienza di un radicamento ad un "laggiù", ad un "oltre-memoria", ad un altrove che non è solo un passato assoluto, che è già da sempre stato (e non è una semplice forma modificata del presente, un presente-passato), irrimediabilmente perduto, ma anche l'apertura della possibilità di un' avventura a-venire, di una traversata dei segni sempre lontana da qualsiasi forma di prossimità e vicinanza, da qualsiasi viaggio dalla meta prestabilita e sicura. Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità del senso, occultamento dell' origine più che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negatività e la morte; d'altra parte solo quest'assenza apre lo spazio alla libertà del poeta, alla possibilità di un'operazione di inscrizione e di interrogazione che deve "assumere le parole su di sé" e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo "nell'uomo che scruta perché non si riesce più ad udire la voce nell'immediata vicinanza del giardino". Perduta la speranza di un'esperienza immediata della verità, il poeta si deve affidare al lavoro "fuori del giardino", alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualità è la possibilità di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un'assenza, ma a diventare soggetto all' assenza, che "tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile". Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore: "Scrivere, significa ritrarsi...dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola...lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto". Così ogni scrittore, scrivendo, sacrifica la propria esistenza alla parola; ma questo stesso atto è anche consacrazione dell'esistenza per mezzo della parola. L'ambiguità essenziale che sta tra le significazioni, l'assenza che non si lascia inscrivere dalla lettera, irriducibile dall'ordine del discorso o della logica dell' identità, è per Derrida originariamente necessaria al senso. Pretendere di dire il silenzio che "sottintende" il linguaggio, di riempire il simbolismo vuoto che marca il tempo morto in ogni testo, significa infatti non aver compreso e conosciuto il linguaggio, "il fatto che esso è la rottura stessa della totalità", non avere avuto esperienza che ciò che la lettera dice è nell' "involgersi su di sé del linguaggio", che è nel vuoto che il linguaggio ottiene la possibilità di essere significante. Più che sostenuto dal contenuto discorsivo, infatti, è nella cesura, nell'interruzione - tra le lettere, le parole, le frasi, i libri - nella discontinuità e nell'inattualità, che il sorgere delle significazioni trova uno spazio di manifestazione, in cui esse vivono grazie alla "morte che si aggira tra le lettere". Se "una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio", e se la scrittura procede aforisticamente, per frammenti, per lapsus, ciò non accade in virtù di una semplice scelta stilistica o per dichiarare uno scacco, ma perché solo questa può essere la "forma dello scritto", di un movimento che insegue e proviene da un'assenza, da una rottura, da un pensiero su un essere che non è né si manifesta mai esso stesso, non è mai presente, in questo momento, fuori della differenza. Derrida, per evidenziare il "movimento di emancipazione" del segno sia rispetto al soggetto parlante che e al contesto, e quindi anche rispetto alla situazione ideale di presenza della voce, introduce il termine spaziatura; la scrittura, prestandosi alla possibilità di marcare il "tempo morto", disponendo di un simbolismo vuoto (di pause, di punteggiatura, di bianchi...), segna il rapporto originario che lega ogni linguaggio alla morte: "la spaziatura come scrittura è il divenir-assente e il divenir-inconscio del soggetto". È infatti in ogni spaziatura silenziosa o non esclusivamente fonica delle significazioni, in ogni spazio non fonetico, che sono possibili concatenazioni e coabitazioni che non obbediscono più alla linearità del tempo logico, del tempo della coscienza e della "rappresentazione verbale". In quanto rapporto del soggetto alla sua morte, il "movimento di deriva" che costituisce ogni scrittura corrisponde, in ritorno, alla costituzione stessa della soggettività, come desiderio di una presenza piena a sé. L'organizzazione della vita si effettua così a tutti i livelli secondo un'"economia della morte", un lavoro di strutturazione e messa in forma dell'esistenza, del presente vivente ad opera di un'assenza originaria. D'altra parte il nome "scrittura" è, segna il gioco di due assenze, funziona cioè coprendo, occultando propriamente, ovvero in modo dissimulato, due posti vuoti: quello del signatario, del soggetto della scrittura, e quello del referente; di assenze cioè che, escludendo la pensabilità e la possibilità di un significato, interiore o mondano, sprovvisto di significante, "forano il linguaggio", lo costruiscono come una rete di rimandi nel vuoto, aperta, che accade nella discontinuità e nella ritenzione della non-presenza. "La traccia affetta la totalità del segno nelle sue due facce", contamina tutto il linguaggio con la sua struttura di presenza-assenza, di doppio movimento di "protensione e ritenzione": solo nel concatenarsi di differenze è possibile ora l'apparire del senso, solo in quella scrittura che fugge qualsiasi situazione di stasi o di presenza assoluta, che eccede qualsiasi domanda d'essenza, e che, eppure, "non è nulla", non è inesistente o insensata, ma ha comunque una qualche forma di esistenza (che non è quella della semplice presenza) e permette una qualche forma di senso (che non è quello pieno, sostanziale ed assoluto della metafisica), "non è ancora del tutto un segno [separato dalla forza] ma non è più una cosa [che si oppone al segno]". La traccia non è più così né il significante di un significato (non c' è più possibilità di manifestarsi di un senso fuori del significante) ma neppure l'unico significato di un significante senza significato, di un significante che non ha altra funzione se non quella di significare un altro significante; "...questa differenza non è niente, è il furtivo", un'erosione "essenziale e insieme fugace" che accade alla "maniera del ladro", che "svuota sempre la parola nella sottrazione di sé", la potenzialità espropriante del linguaggio che ruba in fretta le parole che il soggetto crede di avere trovato, "molto in fretta, perché deve scivolare invisibilmente nel nulla che mi separa dalle mie parole, e trafugarmele prima ancora che io le abbia trovate, perché, avendole trovate, io abbia la certezza di esserne già sempre stato spogliato". Ogni parola, da quando è parola, è infatti "originariamente ripetuta", istantaneamente sottratta, "senza mai essere tolta", a colui che parla e che se ne crede padrone; e tale sottrazione si produce come un'enigma, come una parola che nasconde la sua origine e il suo senso, che non dice mai da dove viene o dove va "perché non lo sa", perché questa ignoranza, quest'assenza del suo proprio soggetto le è costitutiva. Allora quello che si chiama il "soggetto parlante" non è più "quello stesso e quello solo che parla": facendo esperienza della parola, si scopre da sempre in una situazione di irriducibile secondarietà, di espropriazione radicale rispetto al luogo organizzato del linguaggio in cui ogni tentativo di collocazione è vano perché il posto è sempre mancante; "è la differenza che si insinua, come mia morte, tra me e me". Riconoscere l'autonomia del significante, la sua sovrapersonalità e necessità rispetto all' intenzione del soggetto parlante, coincide perciò da questo punto di vista col pensarlo nella sua storicità, ammettere la "stratificazione e potenzializzazione" storica del senso, che, come sistema storico, cioè "aperto da qualche lato", deborda ogni struttura centrata, e continuamente è sull'orlo di smembrarsi, di farsi "costellazione in un sistema". Ogni atto di parola, ed ogni atto di scrittura, diviene così un atto di lettura in un campo storico e culturale da cui si devono attingere le parole e le regole; ciò fa di ogni parola qualcosa di rubato, rubato alla lingua ed anche a se stessa, essendole già da sempre sottratta la proprietà e l'iniziativa, ed apre in ogni atto linguistico un foro, spalanca una porta attraverso cui la parola è sempre sottratta perché è sempre aperta: "essa non è mai propria al suo autore o al suo destinatario e fa parte della sua natura non seguire mai il percorso che conduce da un soggetto proprio ad un soggetto proprio".