sabato 10 maggio 2014

Madre/figlia:il corpo a corpo con la madre

di  Luisa Borrazzo

L’argomento permette, anzi richiede, di esplorare alcuni aspetti: il rapporto tra i genitori e figli, la dimensione del corpo, la peculiarità del disagio del soggetto femminile.
Per coloro che, come chi scrive, lavorano seguendo gli insegnamenti di Sigmund Freud e Jacques Lacan, non è mai inutile ricordare che ci si rivolge sempre all’uno per uno. E’ impossibile generalizzare, sostenere che ciò di cui si tratta in queste righe è universale, valido per tutte le madri e per tutte le figlie. Di questo bisognerebbe sempre tenere conto, anche quando potrà sembrare che il discorso abbia una portata generale.
Si tratta ora di rilevare alcuni elementi essenziali: la madre, la figlia, il corpo a corpo – nelle varie accezioni possibili -, la dimensione di problematicità di questo rapporto nell’attuale.
In primo luogo, domandiamoci cosa è una madre. La risposta non è scontata. Possiamo dire che la madre è l’altro per il suo bambino, l’altro con la A maiuscola, l’Altro da cui il bambino, nel suo venire al mondo, dipende totalmente. La madre è un’entità potente, anzi onnipotente, in quanto può dare, o no, ciò che serve al bambino per sopravvivere – il cibo, le cure. Ella può concedere o rifiutare tutto. Quindi, è un Altro che ha e che può dare e che, al di là di questo, al di là di ciò che può dare, per il fatto stesso di dare, dà ciò che non ha al bambino: il suo amore.
Per esempio, se un bambino piange e la madre accorre, questo grido del bambino gli viene restituito dall’Altro materno in forma simbolica, significante, di parola – “ma allora cosa c’è, che ti succede, hai fame, hai male al pancino…” -. Questo non è dare ciò che si ha, non è dare un oggetto, ma è il dono per eccellenza, quello della parola. Non va da sé che un bambino che riceva tutte le cure essenziali per sopravvivere e star bene fisicamente riceva anche questo dono e, tal proposito, si possono richiamare i famosi studi di René Spitz. Spitz era uno psichiatra austriaco che aveva osservato come molti neonati senza genitori e allevati con le cure essenziali in istituzioni, si lasciassero in pratica morire, manifestando dapprima i sintomi della “depressione anaclitica”, vale a dire calo ponderale, rifiuto del contatto, insonnia, ritardo motorio, disturbi dell’alimentazione, e poi quelli del “marasma neonatale”: totale passività, completo ritiro dal mondo esterno, accresciuta sensibilità alle infezioni anche banali e quindi netto aumento del tasso di mortalità. Questo accadeva perché l’istituzione dava a questi bambini tutto ciò che aveva e poteva dar loro – il cibo, l’igiene… -, ma non quello che non aveva: l’istituzione non dava a ciascuno di questi bambini il dono dell’amore e, per ciò stesso, essi non erano nella posizione di poter essere desiderati. Essi non ricevevano delle cure particolarizzate.
Torniamo alla madre. La madre è una donna, per definizione. Una donna, per contro, non è un Altro pieno, ma colei che incarna, che presentifica a livello del proprio corpo, una mancanza reale, l’essere priva del fallo, e che offre tale mancanza al partner, mancanza che è esattamente ciò che la rende desiderabile, per un uomo.
Quindi, madre e donna parrebbero essere due entità in reciproca contraddizione. Addirittura, per cominciare a rendere la questione più intricata, J. Lacan diceva che La donna non esiste, mentre la madre sì. Possiamo tradurre questo notando come la madre esista in quanto Altro pieno, Altro che è nella posizione di dare al bambino, e che la donna, in quanto incarnazione della mancanza nel reale del suo corpo, possa esistere nella sua particolarità e non come concetto generale, universale.
La madre può essere per il momento rappresentata come un Altro pieno, ponendo, temporaneamente, per convenzione, che non sia mancante, mentre scriviamo così:


La donna


l’inesistenza della donna come entità generale ma, naturalmente, la sua esistenza come essere particolare: esistono le donne, prese una per una. Non c’è un significante, una parola, che definisca la donna in quanto tale, e ciò porta a dire che la donna in quanto tale è inafferrabile, e che brilli più per la sua assenza che per la sua presenza, poiché non è mai tutta qua, ma sempre un po’ altrove. Va notato che la barra è posta solo sull’articolo determinativo e non sul sostantivo, il che vuol dire che la donna non è riducibile ad una definizione. Le donne esistono in un modo non specificato, una per una, ma ad esse non è attribuibile alcuna universalità. Al tempo stesso, ognuna è simile alle altre nel suo essere inafferrabile.
Tutto questo è molto complesso, ma vi ritorneremo.
Quindi, c’è un’antinomia fra donna e madre. Come ricomporla? Perché, stando così le cose, sembrerebbe che una donna, per essere tale, non possa divenire madre. In effetti, è una scelta che molte donne compiono nell’attuale, una scelta che, fino a non molto tempo fa, non era “socialmente accettabile”: seguire i propri desideri, realizzare l’aspirazione di far carriera, ad esempio, può comportare logisticamente, almeno per un certo periodo, l’esclusione della scelta della maternità. Si potrebbe obiettare che, se una donna sceglie la carriera, “fa un po’ l’uomo”, e non si presta ad essere un pieno esempio di femminilità. Allora, qual è la strada che una donna deve seguire per esser tale? Molto semplicemente, tale strada non c’è. Il fatto che non ci sia, è la prova di ciò cui si accennava prima: l’impossibilità di una definizione universale per la donna. Questa strada di possibile realizzazione del femminile non si ravvisa mai del tutto, quindi, né nel far carriera, né è trasmissibile da madre in figlia attraverso la tradizione familiare, né si identifica nel divenire madre. Anzi, paradossalmente, la maternità può costituire un modo di rifiutare la femminilità, soprattutto nei casi in cui l’uomo, il padre del figlio, è respinto come partner.
Oggi una donna può quindi scegliere se e quando generare un figlio. Anzi, la maternità sembra in certi casi occupare un posto abbastanza marginale nella cultura e nell’identità femminile e forse questo spiega il fatto che la maternità stessa tenda a comparire come sintomo: anoressia, aborti ripetuti, sterilità – che, se psicogena, pone la donna davanti all’impossibilità di generare nonostante il desiderio -, gravidanze ad ogni costo… L’identità femminile è cambiata: donna e madre non coincidono più come un tempo, la società odierna accetta e non colpevolizza una donna senza figli, ma ciò non implica che la mancata maternità non divenga una ferita narcisistica dolorosa, simile al lutto. Questo può avvenire perché la maternità, così ci insegna la psicoanalisi, non è puro processo biologico, non è una semplice potenzialità biologica che può essere sfruttata o meno, ma concerne da vicino la soggettività di ogni donna.
Eppure, la soluzione dell’essere madre per poter pienamente dirsi donna, è stata e forse è tuttora considerata un’equivalenza valida. Una donna che è madre ottiene un riconoscimento simbolico, ufficiale, potremmo dire, del suo essere femminile. Essere incinta o madre, per una donna, comporta un segno, visibile, di appartenenza fallica. Una donna che è incinta è stata desiderata, è stata la donna di un uomo.
Lo stesso S. Freud, fondamentalmente, la pensava così. Freud, sino alla fine della sua vita, si è interrogato sul mistero della femminilità, su questo "continente oscuro", senza trovare una risposta definitiva. Freud ancora non poteva sapere che questa risposta non esiste, e questo ha a che fare con quanto accennavamo prima con la scrittura de La donna. La sessualità femminile non solo è stata per Freud misteriosa sino all'ultimo, tanto che era rassegnato all'impossibilità di ricavare un modello univoco di come essa si articoli, ma possiamo dire che già egli aveva colto come essa sfugga all'universale, quando ha osservato che è impossibile universalizzare un esempio particolare: ciò che è proprio di una donna non sarà di un'altra.
E’ noto che Freud ha introdotto il complesso di Edipo come momento strutturante, come passaggio essenziale per la articolazione della soggettività del bambino. Nei lavori che Freud ha dedicato, negli anni, a questo tema, è emersa gradualmente una differenza profonda dell’Edipo nei due sessi: quello che vale per il maschile non può essere esteso al femminile.
Mentre il bambino vede ridimensionato il legame primitivo con la madre per l’intervento di interdizione del padre – o di ciò che esercita questa funzione, che consiste, in una parola, nel far sì che la madre desideri altro, oltre il bambino -, interdizione che contiene in sé una promessa, la promessa di poter aver accesso ad una donna, in futuro -, per la bambina le cose vanno diversamente: sono più complicate e richiedono un giro in più.
Infatti, se la madre è comunque il primo oggetto d’amore, sia per il maschietto che per la femminuccia, la bambina dovrà mutare oggetto, passare dalla madre, al padre. Il primo tempo, quello del vincolo primitivo fra la bambina e la madre, da molti autori post-freudiani definito preedipico, in questa sede ci interessa particolarmente. Va notato che Freud ha prestato attenzione in modo relativamente tardivo a questo legame originario madre-figlia, definendolo “la civiltà minoico-micenea che precedette quella greca” [1] , così come un periodo “difficile da afferrare analiticamente, così grigio e remoto, umbratile” [2] , un’epoca che cade sotto una rimozione profonda, che è difficile ricordare e sulla quale, quindi, è pressoché impossibile dire ma che, in qualche modo, fa ritorno. Può far ritorno in un modo sintomatico, per esempio.
Con Lacan vediamo qualcosa che sembra paradossale, cioè che questo vincolo “preedipico” è ciò che ci conduce ad un al di là dell’Edipo stesso. Ritorneremo anche su questo.
La bambina nel suo venire al mondo incontra la madre, che abbiamo definito sopra come Altro pieno, un Altro potenzialmente in grado di concedere come pure di rifiutare i suoi doni. La bambina cresce e, prima o poi, in un modo o nell’altro, viene a scoprire la differenza sessuale: giocando con un fratellino o un amichetto, nota che i maschi hanno qualcosa in più a livello del corpo, qualcosa in più di lei. Freud è lapidario ed efficace quando descrive questa scoperta della differenza sessuale da parte della bimba: “Essa l’ha visto, sa di non averlo, e vuole averlo” [3] .
La bambina, in un primo momento, rimprovera alla madre il fatto di tenere per sé questa cosa preziosa, mandandola in giro senza, poiché ella suppone che la madre non sia mancante, bensì fallica, completa: anche la mamma ce l’ha, ce lo deve avere.
Se Freud, rispetto a questo, rispetto al penis neid o invidia del pene, è stato accusato di fallocentrismo, è perché non ci si è resi conto del fatto che egli sottolineava l’importanza della funzione del fallo come marcatore della differenza sessuale e non quella del pene in quanto organo. Il fallo freudiano in realtà è un paradosso perché è un fallo immaginario: è il fallo che alla madre manca.
La bambina, comunque, si accorgerà che anche la madre è priva di ciò che lei vorrebbe tanto e qui, sempre secondo Freud, subentrerà la delusione e il disprezzo, rivolto alla madre e poi esteso a tutto genere femminile: “la svalutazione della femminilità”.
La domanda della bambina alla madre, una domanda di avere, di avere il fallo, non ha risposta, e questa fondamentale delusione sarà alla base di tutte le altre rivendicazioni che la figlia potrà rivolgere a colei che l’ha messa al mondo: il non averle dato abbastanza latte, l’averle preferito il fratellino, l’averle vietata la masturbazione… Tutte queste rivendicazioni andranno a velare e allo stesso tempo a sottolineare questa basilare disillusione della bimba in merito al poter avere il fallo e a saperne dotata la madre.
Qui si situa lo snodo essenziale, il punto di svolta per cui la bimba si distacca dalla madre e si rivolge al padre, in quanto completo di fallo, per chiedergli ciò a cui tiene tanto. La madre non può donare alla figlia ciò di cui entrambe mancano, per questo la bambina deve indirizzarsi al padre. Per Freud, quindi, l’invidia del pene spiega il distacco dalla madre e l’entrata nell’Edipo con questo passaggio dalla madre al padre, da cui la bimba può ottenere in dono un sostituto del pene, il bambino – non nella realtà, beninteso. La bambina scivola, lungo ciò che Freud chiama un’equazione simbolica, dal pene al bambino: al culmine del complesso edipico troviamo, nella bimba, il desiderio di avere dal padre un bambino, di generargli un bambino. Un desiderio che si conserva a lungo nell’inconscio, preparando la bambina alla sua futura funzione, di compagna e di madre – questo sempre secondo Freud. E’ un po’ come dire che l’amore per il padre servirà a prefigurare un momento futuro in cui, amando un uomo, la bambina divenuta donna potrà dargli un figlio, avere un figlio, e sentirsi lei stessa completata.
Questo è uno dei destini possibili dell’Edipo femminile, per Freud, che si affianca al “complesso di mascolinità” da un lato e alla perdita totale di interesse per la sessualità dall’altro. Questo destino di totale privazione della sessualità nella donna, un destino di rinuncia, sembra segnato, più degli altri, dalla traccia del rapporto madre-figlia: la madre perde valore – in quanto priva di fallo -, la femminilità perde valore, la sessualità perde valore e l’interesse per essa è azzerato.
Nel passaggio che la bambina effettua dalla madre al padre, non si tratta di una semplice permuta di oggetto, ma di un cambiamento segnato dall’ostilità, che finisce in odio. L’odio per la madre è più dovuto alla scoperta della sua castrazione – poiché la madre era amata in quanto fallica, completa - che alla rivendicazione di un fallo per sé da parte della bambina.
La figlia si distacca della madre, più che per delusione, per riconoscimento del fatto che la madre non potrà darle niente, trasmettere niente, poiché lo statuto della madre non poggia su qualcosa di trasmissibile. La figlia dovrà a sua volta, come a suo tempo la madre, da sola, inventare il suo modo di essere donna.
Freud usa il termine Umsturz, catastrofe, per definire il doloroso processo di distacco della bambina dalla madre. Quello che Lacan chiamerà ravage, che possiamo tradurre in italiano con devastazione. Non stupisce, in tal senso, l’osservazione di Freud che la bambina sembra rivolgersi al padre e quindi entrare nella situazione edipica come se vi trovasse un rifugio: un rifugio dalla catastrofe.
Ricapitolando, se all’inizio pare esserci amore della figlia verso la madre, in quanto la prima ritiene che la seconda sia completa, fallica, successivamente subentra la disillusione e l’odio. Non vi è approdo sul versante del vero amore che, abbiamo visto, è dare ciò che non si ha. Il luogo della madre coincide con il luogo della mancanza, del non avere e la bambina non se ne fa niente di ciò che la madre non ha.
Si può verificare una fissazione all’odio tra madre e figlia, una specie di sfasatura fondamentale, un non-incontro, per cui l’una chiede all’altra, con rabbia, di darle quello che solo immaginariamente ha, e non quello che non ha, che è ciò che condurrebbe alla domanda d’amore – per cui la madre chiede alla figlia di completarla, ad esempio le chiede di soddisfarla pienamente sotto il profilo delle regole educative che le dà, mentre la figlia continua a chiederle sempre nuovi oggetti, senza fine, perché nessuno è quello giusto, nessuno soddisfa pienamente.
Non è così difficile vedere, nel quotidiano, madri e figlie – bambine anche piccole – che si accapigliano, senza che nessuna delle due sia disposta a cedere – la bimba ad obbedire, la madre a dargliela vinta. In questi casi, la posta in gioco va ben al di là del visibile – il precetto educativo non rispettato -: la posta in gioco tocca questi due esseri, l’uno volto a sottolineare la mancanza dell’altro, come ad evitare di farsi carico della propria.
Quello che succede nel “vincolo preedipico” fra la bambina e la madre, non è senza effetti, anche a lungo, lunghissimo termine. In questo primitivo legame tra madre e figlia c’è qualcosa di illimitato, di incommensurabile, un godimento fuori legge: un godimento infinito, infinitezza che è la caratteristica che Lacan ha attribuito al godimento femminile. Il godimento femminile non è tutto sotto l’egida del linguaggio, del dicibile, ma una parte di esso vi eccede. Una donna può provare, non necessariamente ma ne ha la possibilità, un godimento di cui nulla può dire, se non che lo prova. E’ il godimento del mistico: pensate all’espressione sul volto di Santa Teresa d’Avila, così come la rappresenta Bernini. Questo godimento femminile supplementare è illimitato, pur essendo la legge paterna in esercizio, proprio perché non esiste definizione univoca per la donna: una donna non è mai tutta, è sempre un po’ altrove, è sempre un po’ straniera, un po’ altra, anche a sé stessa. Questo vale in special modo per gli eventi del corpo esclusivi del femminile, basti pensare il parto, ove una donna si misura con qualcosa che non poteva dire di sapere, qualcosa che eccede quello che si può trasmettere come un sapere – in un corso pre-parto oppure da un’altra donna, fosse anche la propria madre. Essere incinta, oltre ad essere qualcosa che marca fallicamente una donna, riprende qualcosa del rapporto madre-figlia, uno spazio di godimento senza parola, del quale non si può dire.
Qualcosa di questo rapporto, qualcosa del vincolo preedipico non si risolve ma resta tenacemente vivo nell’inconscio della figlia. Se la bambina prende il padre, come oggetto privilegiato, al posto della madre, questa sostituzione non è indolore o senza scarti ma ha un resto: l’odio. Per Lacan, l’odio è passione dell’essere – in quanto prende tutto l’essere del soggetto –, più antica di ogni altra.
Questo odio che insorge nella relazione madre-figlia può divenire molto evidente e non estinguersi con il passare del tempo, anche se può venire celato, o sovracompensato.
D’altro lato, una parte dell'ostilità depositata nel rapporto della figlia con la madre, può insinuarsi nella relazione con il padre e, da qui, in quella con il partner sessuale: questo perché, se il rapporto con il partner si è sviluppato sulla falsariga di quello con il padre, quest’ultimo si è costruito sulla base del rapporto della figlia con la madre. La poco lieta conclusione può esser quella, non così infrequente, dello stabilirsi di un ménage dove la lotta della donna con l'uomo subentra a quella della figlia con la madre. Pare che si trascini qualcosa di irrisolto. Una rivendicazione che continua tutta la vita.
Per inciso, la soluzione delineata da Freud è che, vivendo a fondo tale ambivalenza, il secondo matrimonio sarà più felice del primo. Non è detto che si debba cambiare necessariamente partner, ma ci si può limitare ad inscenare la commedia del rimatrimonio. Vi sono esempi cinematografici famosi, anche se un po’ datati, come Scandalo a Philadelphia, un bel film del 1940, che dimostrano questo: c’è un matrimonio estremamente conflittuale, un divorzio burrascoso, poi un re-innamoramento dei due stessi partner che conduce ad una seconda unione felice e definitiva.
E’ ora il momento di tornare su un punto toccato all'inizio. Avevamo provvisoriamente considerato la madre come Altro pieno, non barrato. In realtà, questo è preferibile che non succeda: è preferibile che la madre non sia tutta piena, che non impieghi il figlio per completarsi, per porre rimedio alla propria divisione. E’ invece auspicabile che il bambino divida la madre, anziché completarla, la divida tra la madre e la donna, la divida tra l’essere la madre di quel bambino e l’essere la donna che desidera altro oltre lui – nel migliore dei casi, un partner, un uomo che a sua volta desideri questa donna, senza spaventarsi del fatto che è anche madre.
La madre che è tutta e solo madre e nemmeno un po’ donna è una madre che non si lascia dividere dal bambino, ma lo usa per completarsi, lo reintegra, in un certo modo, come fosse una parte di sé. E’ la madre che Lacan, con un’immagine efficace e famosa, denominava la madre-coccodrillo, con le fauci sempre aperte pronte a chiudersi sul bambino. Perché esse non si chiudano è necessario un paletto, e la funzione di paletto è esercitata dal Nome del Padre.
Quindi, nel primo caso si ha una sovrapposizione, che possiamo rappresentare con i due insiemi, uno per la madre, l'altro per il bambino, in fig. 1, anziché una situazione, dove, all’iniziale vincolo tra madre e figlio, per effetto della funzione paterna, subentra una separazione e i due insiemi appaiono così disgiunti.
In tal modo, s ia l’Altro materno che il bambino risultano decompletati, in quanto la funzione del Nome del Padre ha operato una separazione, indicando un al di là, un oltre il bambino, dove possa rivolgersi il desiderio della madre. Si può dire, nel modo più essenziale, che il padre è ciò di cui la madre parla: qualcosa che a vario titolo cattura il desiderio della madre e di cui la madre parla al suo bambino e, per ciò stesso che gliene parla, esiste anche per il bambino..
Quindi, la madre deve essere mancante, e la mancanza della madre deve poter essere simbolizzata tramite la funzione paterna. Divenire madre comporta l’accettazione della mancanza, della castrazione. Il bambino deve rimediare a questa mancanza solo immaginariamente, non nella realtà, pena l’impossibilità di ottenere una posizione separata rispetto all’Altro materno.
Quella della madre-coccodrillo è una figura di madre pericolosa, ma non è l’unica che possiamo riscontrare. Nell’attualità è forse più frequente incontrare delle madri decisamente situate su un altro versante, sul versante solo-donna, una donna autosufficiente, che ha bisogno di poco, forse nemmeno di un partner, e che, all’opposto della madre coccodrillo, investe molto poco il bambino come oggetto. Il bambino entra così nella serie degli altri oggetti, per cui prima c’è la laurea, poi il master, il lavoro, la carriera, la promozione, il figlio, il lifting… il bambino entra in una seriazione, non gli è dato un valore speciale, non è in una posizione speciale nel desiderio della madre.
Entrambe queste posizioni, queste figure materne, seppure antitetiche, sono deleterie per il bambino. In entrambe manca un limite, una regolazione.
Nella prima, nella madre coccodrillo, non esiste un altrove che richiami il desiderio della donna nella madre, la quale si rivolge unicamente al suo bambino, si completa, realmente, con il bambino. Il bambino è un oggetto reale per la madre.
Nella seconda, non c’è limite nella misura in cui gli oggetti di soddisfacimento di una donna scivolano uno dietro l’altro, come se fossero equivalenti, senza che vi sia un limite al godere di questi oggetti, oggetti che sono usati e lasciati cadere, e il figlio è in questa serie.
Queste osservazioni valgono per bambini di entrambi i sessi e ad esse si aggiunge ciò che è specifico della relazione madre-figlia.

Abbiamo visto come la bimba prenda ad odiare la madre quando si avvede che l’ha messa al mondo, per così dire, poco dotata, non più dotata di quanto non sia la madre stessa. Può essere, del resto, che la mamma provi ostilità, un’ostilità ovviamente inconscia, nei confronti della figlia.
Per una donna, infatti, generare un figlio o una figlia non è indifferente: l’immagine del corpo del bambino è istantaneamente e radicalmente differente da quella della madre, la discontinuità è palese. “Solo il rapporto col figlio [con il figlio maschio] dà alla madre una soddisfazione illimitata ; di tutte le relazioni umane è questa in genere la più perfetta, la più esente da ambivalenze” [4] , diceva Freud. Non dimentichiamo che per Freud il desiderio di maternità è in relazione diretta con la castrazione, laddove il bambino viene al posto del fallo tanto desiderato e mai ottenuto. Una bambina completa meno la madre, immaginariamente, a paragone di un maschietto.
La bambina ha sostanzialmente un corpo simile a quello della madre e questo, anche solo ad un livello immaginario, comporta che la separazione non sia così immediata: c’è una continuità, anche se illusoria, fra madre e figlia.
Tale continuità ha radici profonde, e il mito lo testimonia. Basti pensare alla figura di Demetra e della figlia Persefone nella mitologia greca, due divinità distinte e pure talora rappresentate come un’unica entità. Il rapimento di Persefone da parte di Ade, dio degli inferi, desideroso di farne la sua sposa, introduce una netta frattura in questa continuità madre-figlia. Ade, attraverso la violenza del rapimento, inserisce una regolazione nella complementarietà Demetra-Persefone: da quel momento, la fanciulla trascorrerà sei mesi con lo sposo e sei mesi con la madre, non sarà quindi più solo figlia. Compare un elemento ulteriore, la volontà di Zeus, padre di tutti gli dei, figura al di sopra e a un tempo a lato di questa vicenda: Zeus, per mano di Ade, si introduce a regolare, a separare la coppia madre-figlia. Quindi, si potrebbe dire che il mito testimoni un passaggio dal ravage, dalla frattura nel primitivo rapporto madre-figlia, al ravissement, al rapimento. La figlia deve essere rapita per separarsi dalla madre. Ciò che la rapisce è qualcosa di radicalmente Altro: cosa c’è di più simile all’alterità del dio dei morti e del suo regno ctonio?
Rispetto al senso del termine ravage in Lacan, va notato che per lo psicoanalista francese il “preedipo”, il legame madre-figlia, non è una fase precedente all’Edipo, non va considerato come un tempo di preparazione all’Edipo, ma messo piuttosto in rapporto con un dato di struttura: la mancanza della madre, in quanto donna o, meglio, il fatto che la madre, poiché è una donna, si divide rispetto al suo godimento, che è in parte regolato dalla legge fallica, e in parte vi eccede. In parte è dicibile, e in parte non dicibile. Questo si riallaccia a quanto dicevamo prima, cioè che il preedipo porta, paradossalmente, ad un al di là dell’Edipo, a qualcosa che va oltre l’Edipo, va oltre la regolazione portata dalla funzione paterna, e si lega a quanto abbiamo visto all’inizio rispetto a La donna.
Dove emerge più massicciamente il ravage ? Laddove la funzione paterna sembra un po’ flebile, un po’ vacillante. E’ il panorama che ci si presenta con i cosiddetti nuovi sintomi, specie quelli inerenti alla sfera del femminile. Per esempio, cosa mostra un disturbo alimentare quale quello anoressico? Mostra, con le differenze che si coglieranno caso per caso, sin da come si presentano i loro corpi, che questi soggetti sono sempre e ancora figlie – quindi né madri, né donne – e che continuano ad attendere un dono dalla madre, continuano a reiterare un appello senza risposta, sino a che una domanda di cura non spezza questo circolo vizioso e, talora, letale.
Il corpo dell’anoressica può comparire come asessuato, l’amenorrea può presentarsi ad impedire, nel concreto, la generatività. La madre di queste donne è spesso un madre un po’ troppo potente, o capricciosa. Queste figlie dicono di no a quello che questa madre può dare – dicono di no al cibo che essa offre. Questo è, in primo luogo, un modo di porre un limite a questa onnipotenza della madre e di ribaltare i rapporti di forza – per cui sarà ora l’Altro, l’Altro materno, a dipendere dal capriccio della figlia – e, in secondo luogo, una modalità di reiterare un appello alla madre, all’infinito.
Quello che, nello svolgersi degli eventi edipici avrebbe dovuto essere un appello rivolto al padre, una domanda rivolta al padre, qua rimane un volgersi della figlia alla madre. Questo è spiegabile con l’inconsistenza della funzione paterna, inconsistenza cui il sintomo alimentare stesso pone rimedio, mettendo in scacco, finalmente, il capriccio di una madre poco regolato dalla legge paterna.
Si può veramente parlare qui di corpo a corpo: il corpo, segnato dal sintomo, viene, pur essendo una presenza muta, a parlare al posto di quello che non si può dire del rapporto madre-figlia, annodate in un vincolo dove l’odio ha prevalenza.
L’impossibile a dire ritorna nel sintomo.
Il corpo, nel disturbo alimentare, patisce ed incarna la sofferenza soggettiva. E’ un corpo che richiama lo sguardo dell’Altro, per scuoterlo dalla sua presunta onnipotenza. Attraverso il corpo, il soggetto domanda all’Altro, fa un appello all’Altro mentre lo rifiuta. Il “no” al cibo è un “no” all’Altro, all’altro materno, in particolare, un Altro che è rimasto sul versante del soddisfacimento del bisogno, del bisogno di cibo, senza andare la di là di esso, senza raggiungere quindi il versante della domanda, dell’amore, del dare ciò che non si ha.
Naturalmente questo è un esempio estremo: se la relazione fra madre e figlia possiede sempre e comunque un tratto distintivo di devastazione, non in tutti i casi ad essa fa da corollario l’emergere di tali sintomi. In ogni caso, ciascuna madre e ciascuna figlia, si trova a dover fare i conti con le forme particolari che tale devastazione assume. E’ un dato ineliminabile, una frattura non sanabile, sempre esistita, accentuata in modo particolare oggi, dove il valore dato alle cose, agli oggetti di godimento che si possono avere, prevale sul rilievo attribuito al senso e, potremmo dire, all’essere. Ogni donna, madre o figlia, ha da trovare un modo per saperci fare.


riferimenti bibliografici

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