giovedì 6 febbraio 2014

Le psicodinamiche del suicidio

Ogni studio sulla psicologia del suicidio comincia, giustamente, da Freud, che per primo ha posto in relazione la dinamica del melanconico (depresso), potenziale suicida, con quella della persona che ha subito un lutto. In entrambi vi è una componente autoaggressiva che, mentre nel lutto comporta una depressione temporanea (risolventesi infine col distacco dalla figura del defunto), nel melanconico è ben più incisiva e persistente, potendo sfociare, non di rado, nel suicidio. In questo si tratta in realtà di un omicidio, cioè dell'uccisione di una persona con cui esiste un'identificazione. Freud non considera ancora il caso del suicidio senza malinconia né tanto meno quello del tentato suicidio come appello all'ambiente o comunque come elemento finalisticamente inserito in una dinamica più ampia.
Per sintetizzare alcuni dei concetti che interessano più da vicino il discorso, facciamo riferimento al testo "Lutto e melanconia" di Sigmund Freud.
Il lutto e la depressione presentano molti elementi in comune. In ambedue i casi, colui che ne è affetto si ritira dal mondo, riduce la propria attività, perde la capacità di amare (cioè non va in cerca di un oggetto d'amore che sostituisca quello perduto). Di maggiore interesse sono le differenze fra le due condizioni. Il lutto segue la perdita di una persona amata e ha lo scopo di far si che il soggetto abbandoni le relazioni libidiche con essa; se questo lavoro riesce (cioè se le istanze vitali e l'esame della realtà riescono ad avere il sopravvento sulle resistenze create dall'ambivalenza verso il defunto), il processo si risolve e la persona in lutto torna a rivolgere la sua attenzione libidica verso il mondo. Nella melanconia, ciò non si verifica; la condizione depressiva perdura dopo la perdita di una persona così come di un oggetto o di un ideale; anzi, non è neppure necessario che l'oggetto abbia realmente cessato di esistere: esso può essere ben vivo nella realtà, ma essere perduto quale oggetto d'amore. Infine, il melanconico perde (o dimostra di aver perduto) ogni amor proprio, rivolgendosi accuse e proclamando la propria indegnità.
Quest'ultimo fatto ci porta a una prima conclusione: mentre nel lutto è il mondo a impoverirsi, nella depressione si inaridisce l'Io stesso, perde di valore, rallenta o cessa le proprie funzioni sino a sopraffare l'istinto che lo lega alla vita.
In realtà, se si analizza a fondo l'Io del melanconico, si scopre che l'autocritica e la disistima nascono da una scissione dell'Io in due parti. Una parte giudicante e criticante si scaglia su di una parte disprezzata e umiliata; la prima si comporta verso la seconda come un amante tradito e vendicativo.
Tutto ciò non sorprende se ripercorriamo il cammino che conduce alla depressione.
All'origine c'è una fissazione libidica, a matrice narcisistica, verso un oggetto d'amore; amore che, in quanto narcisistico, tende all'identificazione assoluta (e irrealizzabile) con l'oggetto. In altre parole, l'oggetto viene introiettato e "annesso" a una parte dell'Io che si identifica totalmente con esso. Mortificazioni, delusioni, ingiustizie da parte dell'oggetto amato (o la sua morte) possono, in ogni momento e con modalità variabili da caso a caso, scatenare un'ambivalenza insanabile di amore e odio non contro l'oggetto amato (e deludente) ma contro quella parte dell'Io che si è identificata con tale oggetto.
Infatti nel soggetto depresso l'attività libidica è divisa: una parte è regredita nell'identificazione; l'altra, per influsso dell'ambivalenza, assume una polarità sadica e infierisce contro la prima, essendo trattenuta dall'agire contro l'oggetto reale di odio e amore. Tale sadismo rivolto contro sé ci spiega la misteriosa tendenza al suicidio che rende la depressione tanto pericolosa. Non c'è nevrotico in cui le intenzioni omicide non abbiano preceduto quelle suicide. L'Io del melanconico può darsi la morte solo quando sia giunto a considerarsi un oggetto, seguendo un'ostilità sorta, in origine, contro gli oggetti del mondo esterno.
 

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