Il lavoro del cartel sui casi clinici ha rappresentato una prima esperienza di lavoro in piccolo gruppo, tra quattro persone, chi iscritta alla formazione permanente, chi alla scuola del Laboratorio per la specializzazione, chi già appartenente all’Associazione Lacaniana in Italia. Oggetto comune è stato il desiderio di lavorare insieme le questioni che la clinica sottopone costantemente ad uno psicanalista, trovando come strumenti utili la teoria lacaniana e i colleghi stessi come interlocutori a cui pensare di trasmettere le difficoltà e le riflessioni di un fare analitico, con l’ipotesi che far uscire il discorso dalla relazione duale di cura, dalla sua dinamica fatta di ascolto – risonanza – produzione, possa contribuire a far sorgere nuovi saperi e a consolidare quei saperi utili per essere trasmessi ad una comunità più allargata. Un modo dunque, di tenere conto della clinica, di farla contare per chi più prossimo alla parola ascoltata e chi più lontano ma incuriosito ed interessato.
di Michela Marino

L’oggetto di lavoro è di per sé qualche cosa di molto complesso, dire di lavorare su uno o più casi clinici è dire qualche cosa di difficile definizione. Per noi è stato un po’ come dire: lavorare sui discorsi, sulla grammatica che sostiene ogni soggetto, che sostiene il linguaggio inconscio che al meglio esprime la soggettività di ognuno. Interessarsi a tale grammatica ha voluto dire interessarsi ai rapporti tra godimento e desiderio, ai rapporti tra i tre registri, quello del reale del simbolico e dell’immaginario, nonché alla struttura soggettiva nel suo rapporto al significante.
Un caso clinico in psicanalisi può essere tutto ciò e anche la relazione stessa con un clinico, con la persona a cui s’indirizzano le proprie difficoltà che si suppongono poter essere lette da chi ha a che fare con la Kliniké, l’arte medica in origine greca e con ciò che è appunto Klinicòs, derivato di klìne ossia letto, da intendersi sia come il posto dove si sdraiava il malato ma anche come il participio passato del verbo leggere. Dunque, si potrebbe dire che ciò che fa caso-clinico è innanzi tutto la parola che mette in rapporto chi la produce e chi l’ascolta e la legge ad alta voce. Da qui tutta la complessità del renderla fruibile per altri ancora.
Con le parole di J.-J. Tysler tratte dal testo Le mie sere con Lacan[1], si può dire che: “ciò che fa caso nella vita psichica è un vero incontro[2]”e si può immaginare come possa essere complesso “rendere disponibile per la comunità scientifica, per gli altri praticanti, un incontro transferale[3]”.
Questo è ciò che si è provato a fare quest’anno attraverso questo cartel: rendere fruibile qualche cosa di questi incontri a coloro che non sono nell’incontro ma che possono incontrare la parola di chi c’è stato. Al fine d’interrogare questioni, riflessioni e un metodo di cura.
Il caso trattato quest’anno ha aperto una serie di questioni e riflessioni teoriche trasversali a molti incontri clinici, dove ad esempio la parola sintomo ha subito preso un suo ampio spazio mettendo subito in gioco un modo più comune d’intendere il sintomo ed un altro più analitico. Scrive Lacan del sintomo ne La Terza[4]:“Chiamo sintomo ciò che viene dal reale. Il senso del sintomo è il reale, il reale in quanto si mette di traverso per impedire che le cose vadano avanti, nel senso di rendere conto di se stesse in modo soddisfacente[5]”. Questo reale che si mette di traverso ad impedire che le cose vadano avanti, è spesso quel reale per il quale nasce un incontro clinico e che può aprire la possibilità a far sorgere una domanda attraverso la quale dipanare i suoi rapporti con il registro simbolico e immaginario sui quali si è sostenuto ciò che Lacan nel suo primo seminario (1953-54) ha chiamato: “…un sintomo privilegiato all’interno del soggetto. E’il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo[6]”riferendosi all’Io.
Dunque sintomo come irruzione del reale e poi sintomo per parlare di quel particolare che va a connotare un discorso specifico di ogni soggetto. Come se il sintomo fosse anche l’insieme, la modalità attorno a cui si struttura un discorso che produce un certo godimento. Come se la questione potesse essere posta nei seguenti termini: c’è qualche cosa esclusiva di un soggetto che lo “tratteggia” nella sua soggettività e che va a costruire la sua struttura discorsiva il godimento della quale diventa sintomatico.
Tutto ciò, non è assolutamente chiaro e da mettere a lavoro, probabilmente anche in rapporto al seminario che l’Associazione ha pensato per il prossimo anno.
Parlando sui casi, un’altra parola emersa è stata quella di transfertche a sua volta apre la questione della direzione della cura, facendo pensare particolarmente a differenziare un discorso psicotico con un discorso nevrotico. Ultimamente ci si confronta con strutture che con sempre maggiore difficoltà si possono mettere o da un lato o dall’altro, sembra piuttosto che ci siano dei discorsi che impongono di fermarsi, di sentire tutta la loro aderenza alla lettera, tutta la loro difficoltà a questionare, con varie smarginature. Discorsi dove l’irruzione di un immaginario a cielo aperto è sicuramente ridotta, spesso assente, ma dove si avverte la presenza di un discorso in cui la rappresentazione simbolica è difficile da far procedere e dunque anche la messa in discussione di un suo legame con l’immaginario e della costituzione del fantasma.
Ci siamo chieste cosa “trasferisce” un paziente e cosa un analista attraverso la direzione della cura, particolarmente in questi casi “di bordo” tra le strutture ormai definite. Casi che ci stanno interessando attualmente.
[1] Fanelli C., Jerkov J., Sainte Fare Garnot D., (a cura di), Le mie sere con Lacan, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012
[2] Ibidem, pag 161
[3] Ibidem
[4] J. Lacan, La Terza, 1 Novembre 1974 in occasione del VII Convegno dell’Ecole Freudienne de Paris, traduzione di Roberto Cavasola
[5] Ibidem, pag 19-20.
[6] A cura di Giacomo Contri, J. Lacan, Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino 1978
(Pubblicato il 17/09/2012 © Copyright Lacanlab.it)
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